Divagazioni alla francese
Al fatidico scoccare del decimo lungometraggio di finzione realizzato, non ci si dovrebbe certo stupire del fatto che Wes Anderson continui a fare cinema alla Wes Anderson. Un modus operandi in cui lo stile divenga parte organica del contesto, veicolo principe di ciò che l’autore intende esprimere. Ovviamente nemmeno The French Dispatch – fatica per l’appunto numero dieci del cineasta texano – deroga da questa ferrea istanza, per la disperazione di detrattori che assistono anzi ad una sorta di auto-alimentazione del suo inconfondibile stile, fino a divenire autentico compendio di ciò che Anderson ha partorito sino ad ora. Bene così, poiché un Autore con la A maiuscola l’ultima cosa che può ovviamente permettersi di fare è quella di realizzare opere per compiacere qualcun altro.
Allora The French Dispatch. O meglio, come recita il titolo integrale, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun. Una dichiarazione d’amore verso quello zona misteriosa in cui il giornalismo incontra la scrittura creativa. E la cronaca diviene leggenda. Un film di altri tempi, in epoca attuale di imbarbarimento totale. Un gesto gentile di resistenza verso una diffusa mediocrità. Ma gentile fino ad un certo punto, perché Wes Anderson, dietro la patina della cura maniacale del dettaglio e conseguente brillantezza di superficie, sa anche essere sincero. E quindi “cattivo”. The French Dispatch è probabilmente il più libero tra la decina di opere realizzate. Dove per libertà si intende una fuoriuscita radicale da qualsivoglia vincolo narrativo. Tante storie lo compongono. Piccole e grandi, tutte estremamente significative. Mettere in scena la piccola epopea di una rivista americana in terra francese significa a priori entrare in un immaginario dove ogni cosa diventa possibile. Tipo che un ringhioso pittore pluriomicida (Benicio Del Toro), ispirato dalla sua musa guardia carceraria (una Léa Seydoux sempre più magnetica) diventi un artista di fama mondiale sotto l’egida del mecenate Julian Cadazio (Adrien Brody). Oppure che la contestazione sessantottina si risolva in una eterna partita a scacchi tra giovani arrabbiati e autorità. E tanto altro ancora, in un vortice di eventi che resuscita il puro piacere del racconto, perlomeno dalla parte dell’autore. Mentre davanti al grande schermo – unica modalità di fruizione possibile per ogni film di Wes Anderson – si riscopre il godimento sia della visione che dell’ascolto di una capacità di storytelling ormai desueta.
Come sempre nel cinema di Anderson è il concetto di famiglia a risaltare, nel bene e nel male. Tale infatti è da considerare la redazione dell’Evening Sun di Liberty, Kansas, la fantasiosa rivista statunitense diretta da Arthur Howitzer (il fedelissimo Bill Murray) nonché trapiantata in una Francia altrettanto immaginifica. Una famiglia che, come tutte le altre universalmente conosciute, si troverà a fare i conti con difficoltà assortite e infine con la morte, al fine di crescere e cambiare. Niente lacrime è l’imperativo. Fa parte di quelle regole del gioco che si accettano sin dalla nascita. E la poesia sgorga spontanea laddove meno la si aspetterebbe, tra le righe di un’enunciazione sospesa tra surrealismo e affettuosa ironia.
The French Dispatch è un film turgido, pieno di tutto. Forse anche troppo generoso per i tempi intellettualmente avari che ci contraddistinguono. Teniamocelo stretto al pari di una reliquia piovuta da chissà dove. Un happening dove un cast di impressionante fama e bravura si immedesima in figure animate di un presepe vivente e pulsante; o addirittura si cristallizza, a sottolineare senza enfasi i momenti più tragici del film, in tableau vivant assieme iperrealisti e stranianti. Tutti sospesi in una dimensione che forse è esistita solo laddove il ricordo si fonde con la fantasia.
Tanti altri di questi film, mr. Wes Anderson.
Daniele De Angelis