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The Devil and Father Amorth

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VOTO: 6.5

Il ritorno al documentario di William Friedkin

Dopo ben 44 anni da L’esorcista (1973), tratto dal romanzo omonimo di W. P. Blatty e sceneggiato dall’autore stesso, William Friedkin torna ad affrontare il delicato tema della possessione, stavolta con un approccio radicalmente diverso: durante questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, infatti, il regista americano ha presentato fuori concorso The Devil and Father Amorth, documentario sul celebre esorcista della diocesi di Roma da poco scomparso. A visione ultimata, possiamo dire che le sinossi del documentario sinora reperibili lo avevano descritto in maniera piuttosto riduttiva, accennando solo alla ripresa del vero esorcismo condotto da padre Amorth, la quale invece, per quanto abbia un ruolo centrale e sia un punto di partenza e di riferimento costante, è contornata da interviste molto variegate (a W. P. Blatty, a vittime di possessioni, a neurochirurghi): una delle maggiori preoccupazioni di Friedkin, infatti, sembra essere quella di sondare l’argomento sotto molti punti di vista, in modo da assicurarne una lettura il più esaustiva possibile. Il regista americano dà quindi prova di una certa abilità nel maneggiare un genere per lui comunque nuovo, abilità che salta all’occhio già dalle prime battute: prendendo le mosse dal capolavoro degli anni settanta e dal contesto in cui questo prese vita, Friedkin avvicina gli spettatori al cuore del documentario (il nono esorcismo di Cristina, appunto) con cautela, riuscendo così a stuzzicarne la curiosità e a suscitare una forte aspettativa. Ma se lo stile adottato dal regista, assieme alla neutralità e non-pretenziosità del suo sguardo, sono importanti punti di forza di The Devil and Father Amorth, non silenziano le sue storture, di cui una è particolarmente evidente: sì, lo sguardo di Friedkin è programmaticamente senza pretese, ma in una direzione dovrà pur guardare. E invece, per non cadere nella trappola del didascalismo e per non fissarsi in una presa di posizione monologica, il documentario pecca di eccessiva ingenuità; quindi vediamo due tra gli intervistati che, per quanto inconsapevolmente, pervengono all’unico risultato di ridicolizzare la materia trattata, o Friedkin stesso che afferma di non poter mostrare un importantissimo incontro con Cristina “perché non avevo con me la macchina da presa” (si tratta di una dimenticanza fasulla, architettata da un regista manipolatore? Può essere. Ma anche in questo caso, anche solo per l’incertezza dell’intento, non è efficace). Lo scorso anno la sezione Orizzonti ha visto trionfare Liberami, film-documentario di Federica Di Giacomo, un grottesco viaggio nell’entroterra siciliano, dove aleggiano superstizioni e riti di liberazione da forze demoniche innominabili: permettendoci un paragone (comunque suggerito dall’affinità tematica) potremmo affermare che lo scheletro del documentario di Friedkin è più affascinante e articolato, ma a differenza di quello del film nostrano, la sua attraente impalcatura non è sufficiente a garantire uniformità alla materia sorretta, che dunque finisce per accusare i colpi della sua stessa riluttanza verso prese di posizione.
In poche parole, Friedkin ha sicuramente dimostrato un’interessante “spirito” documentaristico, ma non è riuscito a dotare la sua creatura di una voce distintiva.

Ginevra Ghini

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