Nella mente del (presunto) serial killer
La figura del serial killer è tra quelle che esercitano le suggestioni più potenti, nel cinema contemporaneo. Pensate soltanto a quanto ne uscirebbe ridimensionata, senza di essa, la filmografia di un regista importante come David Fincher. Nonostante siano le opere di fiction a orientarsi più facilmente verso soggetti in cui un assassino seriale, realmente esistito o personaggio di fantasia, costituisce il cardine del racconto, anche il documentario periodicamente si infiltra in questa porzione di immaginario, così morbosa ed al contempo intrigante. Proprio questo è il caso del film diretto da Brian Hill, documentarista britannico che con il controverso The Confessions of Thomas Quick sta generando non poche discussioni, al Festa del Cinema di Roma 2015.
Protagonista di questo lavoro indubbiamente complesso e stratificato è Sture Ragnar Bergwall, noto anche con lo pseudonimo di Thomas Quick, che ci viene inizialmente presentato come il più prolifico, sadico ed efferato serial killer della storia svedese. La cronistoria delle sue fosche imprese prende corpo con la confessione dei primi omicidi, raccolta un po’ per caso dal personale dell’ospedale psichiatrico dove Sture a.k.a. Thomas Quick, come si farà chiamare in seguito, era stato rinchiuso per via di precedenti azioni criminose, nonché mentalmente disturbate. Materiali di origine differente vengono a comporre l’articolato mosaico, da cui sembrerebbe che l’uomo sia realmente colpevole di numerosi delitti. Passiamoli pure in rassegna, questi diversi inserti. Ci sono filmati di repertorio, tra cui quelli degli incidenti probatori condotti dalla polizia e dalle autorità giudiziarie; interviste realizzate appositamente per il film, in cui il presunto omicida e altri personaggi coinvolti nella vicenda (psicologi, avvocati, parenti delle vittime, persino un fratello di Sture) esprimono il loro punto di vista; segmenti di fiction attraverso i quali, con l’ausilio di attori veri e propri, vengono ricostruiti aspetti salienti e talvolta scioccanti della sua tormentata esistenza.
Ma a un certo punto la ricostruzione comincia a collezionare elementi, per cui ci si chiede: sarà tutto vero? Non sarà piuttosto la fantasiosa e distorta versione della realtà, che può offrire un mitomane? Il documentario prende così una direzione ben diversa, riconfigurandosi come sarcastico atto d’accusa verso l’incompetenza, la faciloneria, l’assenza di metodo (o la cialtronesca fiducia in metodologie di dubbia efficacia) che in Svezia hanno portato forze di polizia, autorità giudiziarie e apparentemente seri istituti psichiatrici a compiere lo stesso grossolano, tragicomico errore di valutazione.
La prospettiva cui The Confessions of Thomas Quick ci introduce sarebbe quindi di un certo interesse, ma il sensazionalismo che condisce più di un segmento del film, specialmente quelli in cui la drammatizzazione di eventi del passato presenta un taglio così pacchiano, superficiale, persino un po’ volgare nell’approccio psicologico, finisce per limitarne fortemente la genuinità, rendendo se non pretestuoso quantomeno tendenzioso e inutilmente cinico l’indirizzo dato alla ricerca documentaria.
Stefano Coccia