I am Rocky, not the bleeder
«Voi mi conoscete anche se non sapete di conoscermi». Parte così The Bleeder per la regia di Philippe Falardeau. Effettivamente questa affermazione è veritiera, a meno che non si sia dei veri cinefili appassionati del genere o, dall’altro lato, dei fan della boxe. Questo film, però, riuscirà a metter luce su qualcosa che il grande pubblico ignora. In pochi sanno, infatti, che Sylvester Stallone si è ispirato proprio a Chuck Wepner per il personaggio di Rocky Balboa.
Il regista canadese, già molto apprezzato per il suo Monsieur Lazhar (2011), sceglie di dar vita a un biopic molto classico (anche nella regia), ma senza dubbio riuscito in ogni tassello, a partire dall’interpretazione di un Liev Schreiber completamente calato nel ruolo del protagonista. The Bleeder, presentato Fuori Concorso alla 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si regge in particolare sull’interpretazione del Raymond Shaw di The Manchurian Candidate, pronto a restituire con una verità carnale e istintiva il percorso di un uomo davvero esistito. Wepner, sin dai primissimi secondi, si racconta allo spettatore supportato dalle immagini per poi far fare subito un tuffo a ritroso. «Per me era sempre una questione di dare spettacolo», ammette, e iniziamo a vedere frammenti di incontri di boxe (caratterizzati spesso da rallenti per enfatizzare quegli istanti), uno sport così tanto amato e devastante, vissuto in modo vecchio stampo e attaccandosi a quella passione con le unghie e con i denti. The Bleeder, però, non punta l’accento sullo specifico sport, ma sull’uomo e su come viva il pugilato. Conosce a memoria le battute di Una faccia piena di pugni (1962) in cui uno straordinario Anthony Quinn dava vita a Luis Macigno Rivera, un pugile in decadenza e forse non è un caso che probabilmente il nostro protagonista si immedesimi o quantomeno avverta così vicina questa storia. Chuck è soprannominato “The Bleeder” e cioè il sanguinolento per questa fragilità che ha, eppure, nonostante tutto, il suo mantra è resistere fino alla fine, sfidando i grandi campioni, ma in primis se stesso. «Arrivare fino in fondo», questo si ripete dentro di sé affrontando il celebre Muhammad Ali nell’incontro-scontro del marzo 1975, dove ha ceduto soltanto diciannove secondi prima della conclusione. Quest’uomo ha lottato anche e soprattutto fuori dal ring, attraversando la solitudine, dovuta pure all’incapacità di dar spazio ai sentimenti e alle persone che gli volevano davvero bene (a partire da sua moglie Phyliss, interpretata da Elisabeth Moss). Jeff Feuerzeig e Jerry Stahl scrivono un plot che evidenzia quanto la luce dei riflettori – compresa quella causata dal film Rocky – e l’effetto del suo “dare spettacolo” possa mettere ko un uomo. «A volte la vita è come un film, talvolta molto meglio», ascoltiamo a un tratto. Sicuramente nel nostro immaginario quando si pensa alla boxe, ci si spaventa anche per un’idea di sport violento, senza esclusione di colpi, qui Falardeau sceglie di mettere in campo anche l’idea che si ha di certi “campioni” e di come questi possano perdere la strada (tra droga, alcool, il desiderio di fare il tombeur de femmes, tradimenti degli amici). Per farlo, il regista di The Good Lie (2014) si serve di questa parabola di discesa agli inferi e tecnicamente quasi omaggia il cinema classico americano confezionando il tutto secondo proprio questo gusto. Nota di merito va anche alla ricostruzione storica (presente anche il materiale di repertorio) e alla colonna sonora.
Maria Lucia Tangorra