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Tales of Babylon

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VOTO: 8

Sfrontatamente tarantiniano

Poter parlare con la piccola delegazione di Tales of Babylon giunta a Roma per il RIFF 2023, comprendente oltre al regista anche una rappresentante della produzione, è stato illuminante sotto svariati aspetti, non ultimo quello produttivo. È anche da tale angolazione che i realizzatori del film hanno portato a termine qualcosa di realmente, autenticamente miracoloso. Scritto e diretto da Pelayo De Lario, appena 24 anni ma già due lungometraggi all’attivo, questo caleidoscopico ritratto della “nuova Babilonia” londinese è in effetti un autarchico gioiello pulp, che dietro al notevole smalto visivo e a un ritmo narrativo trascinante ha saputo nascondere sagacemente le limitazioni del budget.
Il ritmo c’è nel racconto, ma a quanto pare c’è stato anche sul set: poche settimane di riprese per ottenere poi oltre due ore di montato, saltando in tempi rapidi con la troupe da un angolo all’altro di Londra, sempre alla ricerca di location che non fossero le solite cartoline illustrate dei luoghi più gettonati sul grande schermo, ma conservassero al contrario un’impronta più ruvida, proletaria, sanguigna. Si può tranquillamente dire che la capitale inglese sia un personaggio aggiunto del film.

Venendo al plot, un ardito gioco di incastri ci consente di familiarizzare poco alla volta con un’ampia galleria di personaggi. Descrivere troppo dettagliatamente la trama non renderebbe comunque giustizia all’ottimo “timing” della narrazione, al continuo susseguirsi di scoperte, rivelazioni, trappole, scambi di persona. Basti quindi sapere che l’oggetto del contendere è la sicurezza di due fratelli, una bambina tostissima e un adolescente che ne ha già passate di tutti i colori, in fuga dal nonno malavitoso e scortati o inseguiti per Londra dai tirapiedi del laido capomafia, da stralunati killer dotati però di una loro etica, da altri bizzarri personaggi come quel memorabile nerd, Mort, trasformatosi repentinamente da vittima dei più squallidi atti di bullismo a sanguinario, psichicamente instabile vendicatore. Del resto è lui il protagonista di un breve prologo che stilisticamente è quasi una dichiarazione di poetica, con quel montaggio psichedelico e l’insistenza sui primissimi piani stravolti del personaggio.
Va da sé che di tipi da ricordare ce ne siano molti, nel film, capaci peraltro di una loro evoluzione a tratti decisamente interessante: tra coloro che si fanno amare maggiormente dal pubblico, oltre al già menzionato Mort e volendo a quel sicario maldestro noto nell’ambiente come “Professional”, ma trinceratosi a un certo punto dietro la risibile (e contestata) ostentazione del proprio CV (solo una delle tantissime ironie riversate nel background dei protagonisti), vi è senz’altro la più scaltra dei sicari al soldo del nonno: l’implacabile Svetlana, con quella benda sull’occhio che fa tanto eroina di Tarantino.

Ecco, i modelli cinematografici cui un “enfant prodige” come il britannico (con origini in parte iberiche) Pelayo De Lario pare guardare con ammirazione maggiore sono proprio quelli: Robert Rodriguez, Guy Ritchie (soprattutto per le primissime commedie action alla Lock & Stock, simili a livello di ambientazionei, tipologia di personaggi e black humour) e più di ogni altro Quentin Tarantino.
Nell’omaggiare l’universo “tarantiniano” Pelayo De Lario è addirittura sfrontato. Si va dalle citazioni più esplicite di Pulp Fiction (persino a livello etnico la coppia di killer scesi in campo a protezione dei due ragazzi va in quella direzione) a quello “stallo alla messicana” congegnato molto abilmente verso la fine.
Il calco rischierebbe però di risultare sterile, se il giovane regista non avesse il dono innanzitutto di assicurare brillantezza e tempi quasi da “slapstick comedy” ai dialoghi, risultato ottenuto attraverso ottime scelte di casting ed un buon numero di prove con gli attori (come emerso durante il Q&A); e poi quello non meno importante di saper omaggiare tale filone cinematografico, inserendovi però sempre qualche nota personale. Non ci sorprende infatti che conversando con noi sia uscito fuori a un certo punto il nome di Billy Wilder. Senza spiattellare a ogni inquadratura l’identità sessuale dei personaggi, come si usa fare oggi in un cinema ideologicamente orientato, l’autore ci regala invece in prossimità dell’epilogo un quasi subliminale “coming out”, messo in scena però con l’eleganza e la sottigliezza che la commedia americana e più in generale l’Hollywood “classica” un tempo sapeva esprimere.

Stefano Coccia

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