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Cento domeniche

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VOTO: 7.5

Poveri Cristi

Si può solamente immaginare la sorpresa di uno spettatore (o spettatrice) medio, attirato dalla presenza di Antonio Albanese e perciò assolutamente certo di farsi quattro risate, magari dimenticando le brutture della cronaca quotidiana. Al contrario è proprio con quel tipo di realtà che si confronta senza mezzi termini Cento domeniche, quinta opera dietro la macchina da presa del popolare attore.
Antonio (Albanese stesso), operaio specializzato in una ditta nautica nonché pensionato precoce a causa della crisi del settore, coltiva un sogno. Vedere la propria, unica, figlia convolare a nozze, pagando da parte sua un ricevimento all’altezza. E l’evento sembra materializzarsi quando la ragazza, molto assennata, fa il grande annuncio delle nozze. Antonio si reca in banca allo scopo di ritirare il denaro necessario ma viene convinto dall’affabile direttore ad investire l’intera cifra presente sul proprio conto (circa ottantamila euro) in azioni della banca medesima, ottenendo così la somma richiesta ad un tasso quasi gratuito, grazie agli interessi sulle azioni. Ma pochi sono al corrente del fatto che la banca in questione non naviga certo in buone acque…
Si potrebbe definire, senza timore di esagerazione, Cento domeniche una discesa all’inferno, scandita passo dopo passo. Un incipit descrittivo, che possiede il merito di farci entrare nel tranquillo microcosmo del protagonista. Il quale è separato da parecchi anni, ha un’amante occasionale, si prende cura della madre malata e coltiva i suoi hobbies con gli amici del posto. Insomma una vita relativamente tranquilla, tipica di una provincia sonnacchiosa. Almeno fino alla terremoto economico.
Albanese sembra proprio aver assorbito la lezione dei maestri ai quali ha prestato la propria maschera da uomo comune – in primis il Gianni Amelio de L’intrepido – concentrandosi meritoriamente su coloro che non fanno notizia, vittime continue di qualcosa che viaggia ben al di sopra delle loro capacità di controllo. Sarebbe abbastanza azzardato definire Cento domeniche – titolo in apparenza ambiguo che si riferisce ai giorni festivi impiegati a costruire la casa di proprietà da parte di gente che si “è fatta da sé” – un’opera alla Ken Loach e tuttavia non siamo così distanti dall’illustre modello. Del celebre cineasta britannico manca forse la lucidità dell’analisi complessiva ma trattandosi di una vicenda narrata da un punto di vista personale, quello di Antonio, lo stesso appare un difetto trascurabile. Il protagonista assiste alla sfascio progressivo della propria e altrui esistenza e, giustamente, non capisce. Non comprende come gli altri, in senso lato, abbiano potuto tendergli una trappola così devastante, a lui che si è sempre fidato del prossimo. Proprio per tali motivi l’Albanese regista e cosceneggiatore accresce da un lato l’empatia verso il personaggio, dall’altro l’inquietudine nei confronti di una situazione del tipo “può accadere a chiunque”. Quasi un invito – a tratti ideologicamente un po’ confuso e venato di qualunquismo dettato dalla rabbia – a diffidare di un mondo le cui regole sono dettate da un capitalismo sempre più avido, incurante dei destini di persone trattate alla stregua di agrumi da spremere e gettare via.
Al di là dei difetti del lungometraggio, Antonio Albanese merita un sentito elogio. Perché ha avuto, con Cento domeniche, il coraggio di cambiare rispetto al cliché da lui abilmente costruito nel corso degli anni e perché chiunque abbia intenzione di vedere il film non potrà rimanere indifferente di fronte ad un epilogo forse ineluttabile – e perciò prevedibile – ma di certo destinato a rimanere impresso ben oltre il termine della visione.
Dopo il passaggio alla Festa del Cinema di Roma 2023 Cento domeniche avrebbe senza dubbio pieno diritto di penetrare le coscienze del pubblico. Anche con la violenza necessaria a suggerire ulteriori spunti di riflessioni. Nel bene e nel male.

Daniele De Angelis

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