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Sympathy for the Devil

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VOTO: 8

La guerra ti entra nel sangue

Indipendentemente dal giudizio critico su quello che abbiamo potuto vedere sul grande schermo nel corso dell’undicesima edizione del Bif&st, laddove Sympathy for the Devil è stato presentato nel concorso della sezione “Panorama Internazionale”, quello firmato da Guillaume de Fontenay è un film dal fortissimo coefficiente di difficoltà, tanto dal punto di vista drammaturgico che da quello dei contenuti, dell’approccio e della messa in quadro. Il fatto che il cineasta canadese si sia avventurato in un territorio così ostico e per di più in un’opera prima, rappresenta un fattore da tenere assolutamente in considerazione. Per quanto ci riguarda, il coraggio in un regista si vede anche da queste cose e l’esordiente proveniente dalla straordinaria fucina di talenti quebecchese ne ha da vendere.
Per il suo battesimo di fuoco ha scelto una storia di guerra, legata a doppia mandata con il capitolo della biografia di colui che l’ha vista con i propri occhi, raccontandola senza filtri in nome della verità e della libertà di stampa. Quel qualcuno è il giornalista francese Paul Marchand che, dopo il Libano, è stato per 18 mesi un importante reporter per tutte le radio francofone durante l’assedio di Sarajevo. Ed è su di lui, sul periodo trascorso in quella terra ostile e dilaniata da uno dei conflitti più sanguinari e brutali della Storia, che si concentra il romanzo omonimo scritto dallo stesso Marchand e tradotto in immagini da de Fontenay nella pellicola che abbiamo visto e apprezzato nel corso dell’undicesima edizione del Bif&st, laddove è stato presentato nel concorso della sezione “Panorama Internazionale”.
La trasposizione racconta in forma quasi cronachistica le ultime settimane trascorse dal reporter in quel di Sarajevo sino al suo ferimento, che lo costrinse a tornare a casa senza un braccio, colpito dall’esplosione di un mortaio. Ciò che precede questo tragico epilogo viene rievocato dall’autore attraverso una narrazione che percorre contemporaneamente tre strade: il racconto del conflitto bosniaco, quello biografico e del mestiere del reporter di guerra. Strade che il cinema ha già visto confluire con il medesimo modus operandi in altre operazioni analoghe, tra cui di Urla dal silenzio di Roland Joffè, Salvador di Oliver Stone o il più recente A Private War di Matthew Heineman. Ma è a Welcome to Sarajevo di Michael Winterbottom che torna con più insistenza la mente e con il quale è immediato il confronto, in primis per lo stesso scenario bellico nel quale lo spettatore viene brutalmente scaraventato, con la fame, i cecchini, la distruzione, i morti, i bambini (l’uccisione del piccolo Adi per mano di un cecchino e il trasporto disperato all’ospedale è straziante) e tutti gli orrori possibili al seguito.
La macchina da presa rigorosamente a mano di de Fontenay rimane sempre incollata al protagonista, per mostrare attraverso la sua prospettiva la realtà di un corrispondente di guerra che ogni giorno si trova a fronteggiare atrocità e ingiustizie, assistendo all’apatia della comunità internazionale e all’indifferenza di alcuni dei suoi colleghi, per i quali la guerra non è altro che una “bella storia”. Attraverso momenti di euforia ed esperienze adrenaliniche, dilaniato nel proprio conflitto tra il senso del dovere e la sensazione di inutilità, questa è il viaggio all’Inferno di un uomo che finisce per rinunciare alla sua obiettività giornalistica e schierarsi. Ed è qui che Sympathy for the Devil trova la sua vera dimensione, nella scelta di mostrare la guerra e le sue conseguenze in maniera realistica e cruda, ma senza spettacolarizzare la morte, partendo proprio dal suo narratore, il cui profilo caratteriale viene disegnato sullo schermo con grandissima onestà intellettuale. Il tutto partendo dall’uomo sprezzante del pericolo, provocatore, attento e rigoroso nel raccontare gli orrori cui ha assistito, “radiografato” dal regista canadese attraverso un ritratto che ne restituisce le sfumature: vulnerabile pur dietro la sua corazza di sarcasmo, fragile nonostante la sua spavalderia, forte malgrado le sue ferite. Un lavoro sugli opposti reso con grande intensità e coinvolgimento emotivo da colui che è stato chiamato a vestire i panni di Marchand, ossia Niels Schneider (César 2017 della miglior promessa per Diamant noir).

Francesco Del Grosso

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