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A Private War

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VOTO: 8

Questa è la realtà!

Marie Colvin non avrebbe bisogno di presentazioni, ma per coloro che non la conoscessero è stata una delle reporter di guerra più importanti della storia, corrispondente in alcune delle nazioni più pericolose e instabili del mondo per il quotidiano britannico The Sunday Times dal 1985 fino alla sua morte, avvenuta al fianco del fotografo francese Rémi Ochlik all’età di 56 anni il 22 febbraio del 2012, mentre seguiva l’assedio di Homs, in Siria. Ed è da lì, dal suo corpo inerme e privo di vita disteso tra le macerie di un palazzo bombardato sede media non ufficiale durante l’offensiva dell’esercito locale, che inizia e si conclude il biopic che Matthew Heineman, pluripremiato regista di documentari come City of Ghosts e Cartel Land (quest’ultimo nominato agli Oscar® come Miglior Documentario nel 2015), ha realizzato sulla giornalista americana. La ciclicità di una scrittura cronologicamente non lineare e il conseguente riavvolgimento del nastro ci trascina nelle combat zones e negli highlights delle esperienze in prima linea della Colvin, con un racconto che farà tappa in Sri Lanka, Iraq, Afghanistan e Libia, per chiudersi in Siria.
L’esordio nel cinema di finzione di Heineman dal titolo A Private War, dopo il debutto al Toronto International Film Festival 2018 e la proiezione alla 13esima edizione della Festa del Cinema di Roma prima dell’uscita nelle sale nostrane il 22 novembre con Notorious Pictures, è una biografia oggettiva e onesta che rende il giusto omaggio alla figura della protagonista. Ne mostra il campo e controcampo caratteriale, restituendone tanto il suo intrepido impegno presso i luoghi distrutti dalla guerra quanto la sua tormentata astinenza da essi, segnata dai ritorni a casa e dai fantasmi che continuano ad aleggiare nella sua mente. Quest’ultimi diventano incubi notturni e ad occhi aperti che il regista americano trasferisce dalla testa della Colvin al grande schermo attraverso frammenti d’inferno terreno popolati da macere, lamiere, pioggia di proiettili, corpi martoriati e detonazioni.
In A Private War, l’autore prende in prestito l’articolo di Marie Brenner, pubblicato sull’edizione statunitense di Vanity Fair “Marie Colvin’s Private War”, per dipingere un ritratto che assolve in maniera egregia al compito prefissato, ossia quello di mettere sui due piatti della stessa bilancia il coraggio ma anche le tante insicurezze, paure e fragilità dell’essere umano dentro e anche lontana dagli orrori dei teatri di guerra, quelli che nel film rivivremo attraverso le sue parole e guarderemo attraverso il suo occhio (il sinistro lo perderà per colpa delle schegge di una bomba caduta a poca distanza da lei mentre si trovava a Vanni in Sri Lanka per documentare il conflitto nel 2001). In tal senso, Heineman trova il giusto equilibrio tra la componente professionale e quella umana, mostrandoci le sfumature di una donna assai complessa (per chi volesse approfondire ulteriormente la sua figura consigliamo la visione dei documentari Bearing Witness e Under the Wire), ritratta sui campi di battaglia e nella vita quotidiana con un grande realismo nella messa in scena.
E se il regista ci mette molto del suo per consegnarci un racconto dal forte impatto emotivo, a tratti persino straziante (vedi le scene del ritrovamento delle fosse comuni alle porte di Baghdad o quella della clinica di Homs), l’attrice candidata agli Oscar® Rosamund Pike ci mette altrettanto coinvolgimento e una fortissima intensità per calarsi in maniera totalizzante nei panni della Colvin, offrendo alla platea di turno l’ennesima grandissima interpretazione della sua carriera, che speriamo possa essere ricompensata con un’altra meritatissima nomination all’ambita statuetta.

Francesco Del Grosso

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