La verità è scritta sul corpo
Ci sono film che raccontano storie tremende e inenarrabili, storie che purtroppo non sono il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma la somma di eventi realmente accaduti. Quella di Stefano Cucchi è una di queste e la pellicola di Alessio Cremonini, presentata nella sezione “Orizzonti” della 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia a una manciata di giorni di distanza dall’uscita in contemporanea nelle sale e su Netflix il 12 Settembre, ne è la cronaca filmata.
L’attesa nei confronti di Sulla mia pelle era altissima e non poteva essere altrimenti visto il peso specifico e la portata della vicenda narrata, che ad oggi, a nove anni distanza dalla morte del trentunenne di Torpignattara per mano di un gruppo di carabinieri (e indirettamente dello Stato Italiano nelle sue diramazioni, espressioni e rappresentanze giuridiche, sanitarie e istituzionali) e con un lungo processo ancora in corso, rappresenta una ferita aperta che difficilmente si rimarginerà. Ma la verità in questo caso è una e una sola ed è sin dal principio stata sotto gli occhi di tutti i testimoni oculari che a vario titolo si sono avvicendati e affacciati nella vita del protagonista in quei sette interminabili giorni d’inferno. E la verità in questione, negata e ancora adesso messa in discussione in un’aula di tribunale, era scritta a caratteri cubitali sull’epidermide violata e pista di Stefano, la cui odissea disumana è stata precedentemente narrata da Maurizio Cartolano nel documentario 148 Stefano mostri dell’inerzia. Si trattava del 2011 e la distanza dai fatti era troppo esigua per consentire all’autore di andare veramente in profondità. Ma ora gli accadimenti, la mole di processi, i rinvii a giudizio dei (presunti) colpevoli e lo iato temporale che separa tutti o tutto dagli accadimenti è più che sufficiente a garantire allo script del film di Cremonini la sostanza e le materie prime drammaturgiche e narrative per penetrare in quella dolorosissima vicenda.
Il compito in sé era decisamente complicato da portare a termine. Del resto, non è facile e non lo è mai stato confrontarsi cinematograficamente parlando con storie vere come quella di Cucchi. In tal senso, la Settima Arte nell’arco dei decenni è stata la testimone diretta di rovinose cadute, ma anche di opere che hanno lasciato il segno nella memoria collettiva come esempi indimenticabili di cinema d’inchiesta e d’impegno civile (Petri e Costa-Gavras docet). Sulla mia pelle fa parte di questa seconda categoria e con tutte le distanze del caso. Quello firmato dal cineasta capitolino, autore nel 2013 del dramma a sfondo bellico Border, è per quanto ci riguarda un film necessario ancora prima che utile alla causa. Un film che andava fatto, ma che al contempo non avremmo mai voluto vedere, perché racconta e mostra qualcosa che non sarebbe, ieri, ora e mai, dovuto accadere. Qualcosa che non rappresenta però un unicum nella storia più o meno recente del Paese in cui viviamo e che il numero elevato di decessi nelle carceri nostrane, in costante aggiornamento, sottolinea brutalmente. I fatti dicono che Stefano Cucchi era in custodia cautelare, accusato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, è deceduto nelle prime ore del 22 ottobre del 2009 nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma a causa dei traumi riportati in seguito al pestaggio avvenuto in caserma, una settimana prima e nei momenti successivi al fermo da parte delle forze dell’ordine. Quanto accaduto è riportato in maniera certosina sulla timeline del film, con tanto di orari, luoghi e giorni a indicare lo scorrere lento e inesorabile di un autentico calvario. E seppur con altre dinamiche la mente torna al caso Aldrovandi e alla pellicola non di fiction che ne ha rievocato e ricostruito le fasi salienti, ossia È stato morto un ragazzo di Filippo Vendemmiati.
Per alcuni addetti ai lavori, Cremonini avrebbe dovuto osare ancora di più, magari portando sullo schermo un film molto più duro e “cattivo”, ma per quanto ci riguarda quello che abbiamo visto e sentito nei 100 minuti è quanto di meglio e più intelligente si potesse fare e non per mancanza di coraggio, bensì per un atto di buon senso. Il pericolo di andare a sbattere pesantemente contro un “muro di gomma” distributivo avrebbe impedito all’opera in questione di essere diffusa e di assolvere al suo compito principale, ossia quello di narrare una storia. Sulla mia pelle è un film e non un processo, così come lo schermo non è un’aula di tribunale, di conseguenza lo scopo era ed è quello di fornire agli spettatori di turno gli strumenti per maturare una propria idea a riguardo e degli spunti di riflessione. Sono i giudici e la magistratura nella vita reale ad avere il dovere di stabilire quale sia la verità e punire i colpevoli. L’opera seconda di Cremonini rispetta in pieno la suddetta missione e lo fa con la giusta misura, a volte vicina quando si tratta di aggrapparsi con le unghie e i denti al protagonista e al dramma che si sta consumando sulla sua pelle, a volte lontana quando se ne distacca lasciando la cella per andare a narrare cosa accade fuori nel controcampo familiare. Quest’ultimo offre al fruitore ciò che per fortuna è rimasto lontano dalle telecamere, ma che per quanto concerne il film offre un punto di vista privato, anch’esso doloroso e vissuto in apnea e all’oscuro di tutto, che arricchisce e stratifica la drammaturgia e la narrazione. Un equilibrio, questo, che oltre ad allargare lo spettro e il ventaglio emozionale, restituisce le due facce della stessa medaglia, ossia quella della sfera pubblica già ampiamente dibattuta e quella intima passata in secondo piano.
La giusta misura raggiunta da Cremonini non sta però solo nell’avere trovato la giusta distanza, ma anche nel non avere mai indugiato con un occhio voyeuristico sulle dinamiche e sul corpo martoriato. E la bravura del regista sta nel non avere mai strumentalizzato o spettacolarizzato il dolore e la sofferenza di un ragazzo e dei suoi affetti, mettendo la macchina da presa perennemente al servizio della storia e dei personaggi. Di fatto, l’autore ha lasciato agli eventi il compito di narrare e non viceversa. Il risultato è un flusso crudo, spietato, dove possibile oggettivo e onesto nel suo materializzarsi sullo schermo, laddove abbiamo potuto assistere all’ennesima grande prova attoriale del camaleontico Alessandro Borghi, straordinario nel cambiare pelle al fine di compiere un’incredibile mimesi vocale e corporea per diventare ed essere Stefano Cucchi.
Francesco Del Grosso