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Stray Dog

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VOTO: 7

Per mia colpa, per mia grandissima colpa

Dopo la pioggia di riconoscimenti ottenuti con Un gelido inverno, tra cui quattro nomination agli Oscar, Debra Granik avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, con una fila di produttori a stelle e strisce pronti a darle cash fumante e libertà di azione per un nuovo progetto; ma evidentemente anche Oltreoceano il vento ha cambiato direzione oppure la coerenza professionale della diretta interessata ha prevalso sulle facili tentazioni. Nel suo caso, ci sentiamo di sposare la seconda ipotesi. Per cui accogliamo con piacevole sorpresa la scelta della regista statunitense di tornare dietro la macchina da presa con un’opera come Stray Dog, che dopo alcune tappe nel circuito festivaliero internazionale approda in quel del Torino Film Festival (la Granik è presente anche in veste di giurata del concorso ufficiale Torino 32) nella sezione “Festa Mobile”.
La Granik prosegue il suo percorso nel cinema indipendente, aggiungendo un nuovo tassello all’esigua ma già significativa filmografia, che può contare oltre che sul potentissimo Un gelido inverno anche su un’opera prima del calibro di Down to the Bone. La regista americana firma un documentario on the road che trascina lo spettatore di turno al seguito di un reduce della guerra del Vietnam di nome Ronnie Hall, in un lungo viaggio fisico ed emozionale alla ricerca della redenzione.
Il risultato è un ritratto umano borderline che parla al cuore dello spettatore con una semplicità di linguaggio disarmante e senza filtri romanzeschi, ossia quello del cinema del reale fatto di osservazione e pedinamento. In tal senso, la mente non può tornare allo stile e all’approccio alla materia di Gianfranco Rosi e in particolare al suo Below Sea Level. Ciò consente al racconto di estendere i propri orizzonti drammaturgici ben oltre il classico biopic, per dipingere un affresco di vita e di morte, di amore e libertà. Ma Stray Dog è prima di tutto un film sul senso di colpa, che pesa come un macigno sull’esistenza di un uomo che abbraccia la filosofia di vita dei bikers per girare la nazione a bordo di una Harley, nel tentativo di perdonare se stesso per le atrocità commesse sul campo di battaglia. Il solo modo per farlo è ascoltare e incontrare i suoi simili, confrontarsi con loro e mettersi a nudo.
Il solo limite riscontrabile, che non permette all’operazione di spiccare il volo e restare dal primo all’ultimo fotogramma utile in quota, è l’eccessiva durata. La timeline presenta infatti troppe dilatazioni, che rendono meno efficace la fruizione. Ciò che resta è comunque un film privo di retorica e morale a buon mercato, immediato e sincero, capace di regalare sorrisi e interessanti spunti di riflessione.

Francesco Del Grosso

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