Corpi e luci: cronaca di una giornata milanese con il regista danese
Nel tour promozionale di The Neon Demon post Cannes 2016, da dove è tornato a mani vuote, Nicolas Winding Refn ha fatto scalo in Italia in occasione dell’uscita nelle sale nostrane (con Koch Media, a partire dall’8 giugno) del suo nuovo film. Una tappa obbligatoria non poteva che essere in quel di Milano, da sempre riconosciuta come città della moda per eccellenza. Per cui, quale cornice migliore, se non la metropoli lombarda, per la presentazione di una pellicola la cui storia ha come ambientazione proprio il mondo dell’alta moda e delle passerelle. Location scelta per dare vita all’evento (realizzato in collaborazione con Sky Academy) lo scorso 7 giugno è stata l’Aula Magna della Libera Università IULM, trasformata per l’occasione nel palcoscenico di una interessantissima e anche divertente masterclass, che ha visto protagonista il cineasta danese che, in compagnia di Gianni Canova, ha potuto ripercorrere la sua carriera e approfondire temi e stilemi del suo cinema. Il tutto davanti a una platea sold out di addetti ai lavori e studenti dell’Ateneo milanese. Noi di CineClandestino non potevamo mancare e quella che vi riportiamo è la cronaca dell’incontro, al quale ha preso parte anche una guest star come Dario Argento.
Ma riavvolgiamo il nastro della giornata, con la mattinata che si è aperta alle ore 11 con la proiezione dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Refn. Ed è proprio da questa che qualche ora dopo Canova è partito per rompere il ghiaccio all’inizio dell’incontro pomeridiano, caratterizzato da una serie di domande rivolte al regista supportate da contributi video.
G.C: Ti aspettavi le reazioni contrastanti raccolte da The Neon Demon a quest’ultima edizione di Cannes?
N.W.R.: Penso che oggi ci sia una battaglia faccia a faccia tra la creatività e il futuro dell’entertainment. Questa va in scena a livello individuale, all’interno di ciascuno di noi ed è legata ai gusti e alle preferenze personale. Il risultato di questa battaglia viene poi espresso e reso pubblico su internet e sui mezzi da esso messi a disposizione. Quindi le critiche me le aspettavo e fanno parte del gioco. Mi piace molto partecipare con i miei film al Festival di Cannes. Un festival è un momento di confronto e quindi devi essere pronto a tutto, anche ai fischi.
G.C.: Che cos’è per te The Neon Demon: una riflessione sul culto della celebrità oppure sul feticismo delle immagini?
N.W.R.: Mi avvicino a quello che faccio come l’estensione di quello che mi piacerebbe vedere. Quindi è come un movimento inconscio, costante e continuo. The Neon Demon è nato da un sogno. Una mattina mi sono svegliato è ho pensato: come ci si sente ad essere belli, anche perché io non lo sono, mentre mia moglie e mia madre sono entrambe bellissime. Mi sono chiesto come si sentono loro ad essere belle, con tutti i vantaggi che ne conseguono. Poi ho iniziato a riflettere sui social media e ho visto che mia figlia tredicenne ha iniziato a vederli come degli specchi di se stessa, nei quali proiettare la sua immagine. Ho mescolato entrambi gli aspetti e mi è venuta in mente l’idea di fare un film di teenagers dell’orrore sulla bellezza e sull’ossessione della bellezza, scegliendo il punto di vista di una sedicenne. Questo film è stata anche l’occasione per mostrare la donna e per metterla al centro, dopo aver fatto pellicole che raccontavano soprattutto di figure maschili.
G.C.: Vedendo il film si ha come la sensazione di assistere a qualcosa che a un certo punto ti fa venire la voglia di afferrarlo e mangiarlo. Al suo interno ci sono personaggi che vogliono rubare la bellezza altrui, che se ne vogliono impossessare divorandola. È un film cattolico, della serie prendete il mio corpo e mangiatene tutti?
N.W.R.: L’aspetto più orrorifico del film è proprio questa ossessione continua del mondo di oggi nei confronti della bellezza. La soglia della giovinezza si riduce sempre di più e quindi le persone iniziano a inseguire la giovinezza e la bellezza con il passare del tempo. Fanno qualsiasi cosa per farle proprie, arrivando persino a consumarla e a volerla mangiare. Si, penso che ci sia anche un aspetto religioso e sacrificale.
G.C.: In questo tuo ultimo film hai riversato molte delle tue ossessioni. Si può dire che in The Neon Demon c’è un po’ della tua vita?
N.W.R.: Sono nato con una dislessia molto forte che mi impediva di leggere e di scrivere. Ho potuto iniziare a farlo solo all’età di tredici anni. Quando a otto anni io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in America, le prime difficoltà sono state proprio con la lingua. Non capivo l’inglese e la dislessia rendeva il processo di apprendimento ancora più complesso. Di conseguenza, le uniche cose che capivo erano quelle che riuscivo a vedere. Penso che sia stato in quel momento che il cinema mi ha trovato, diventando quasi una evoluzione naturale, perché non sapevo fare altro. Quando ero più giovane, infatti, non ero bravo negli sport, non sapevo cantare e nemmeno ballare, non sapevo modellare l’argilla e non ero uno scultore. In più ero pure daltonico (ride). Ho avuto la prima fidanzata a ventiquattro anni. Diciamo che ero piuttosto patetico. Tutte queste mancanze mi hanno permesso di entrare e di immergermi nella creatività. L’unica tela bianca davanti a me era diventata lo schermo.
G.C.: Tu hai anche un’ossessione nei confronti delle Barbie, tanto da arrivare a collezionarle. Elle Fanning, che hai scelto per il ruolo della protagonista, rappresenta la tua Barbie perfetta?
N.W.R.: La possibilità di realizzare un film come The Neon Demon dipendeva anche dalla scelta di colei che avrebbe dovuto interpretare la parte della protagonista. Non c’erano opzioni in circolazione. Non riuscivo a trovarne una che fosse in possesso di tutte le caratteristiche richieste dalla storia e dal personaggio. Poi mia moglie vide un film con Elle Fanning, dove aveva ancora sedici anni e me la segnalò, dicendo che lei era perfetta per quel ruolo. Poi ho visto un servizio fotografico che la ritraeva su una rivista di moda e mi sono convinto che lei andasse benissimo. Se io fossi una sedicenne, vorrei essere lei. Ci siamo incontrati ed è stato come quando ho incontrato per la prima volta Ryan Gosling: calzava tutto a pennello. Abbiamo parlato del film e del personaggio e ci siamo ritrovati subito sulla stessa linea d’onda. Lei aveva sedici anni quando abbiamo iniziato le riprese e ha festeggiato i diciassette durante il loro svolgimento. In un certo senso, ha come rispecchiato l’evoluzione del personaggio: dall’innocenza al diventare la regina di Cannes.
Dopo un botta e risposta incentrato unicamente sui temi, gli stilemi e la lavorazione di The Neon Demon, si è passato a parlare più in generale del modo in cui Refn fa e concepisce il suo cinema, con riferimenti ai lavori precedenti, allargando il discorso a una riflessione sul mestiere di regista.
G.C.: C’è un rapporto strano tra la tua vita e i tuoi film. Ad esempio nella trilogia di Pusher hai raccontato il mondo della droga, ma tu hai sempre dichiarato di non aver mai fatto uso di sostanze stupefacenti. Racconti il più delle volte di famiglie violentissime, ma tu provieni da una famiglia rispettabilmente e normalmente borghese. Sei un po’ dottor Jekyll e mister Hyde?
N.W.R.: Sicuramente c’è un sadomasochista dentro di me. Nei miei primi film ho cercato di andare a catturare l’autenticità e io volevo fare parte di quella autenticità. Volevo essere un grande regista e vivere come tale. Tutto girava intorno al mio ego e alla mia vanità. Poi un giorno mi sono accorto che non sarei mai diventato il più grande regista di tutti i tempi e ho iniziato a girare i film con tutto me stesso. Ciò che ne scaturiva non era altro che l’estensione di me e di quello che avevo dentro. Per cui il risultato non poteva essere altro che l’espressione del mio carattere autoreferenziale.
G.C.: Poi sei approdato a Hollywood, che effetto ha fatto su un cinefilo come te?
N.W.R.: Hollywood è il cuore dell’industria dell’entertainment e mi è sempre piaciuta la sua metodologia. Ma io non piacevo a lei, tanto che anche un film come Drive non ha catturato l’attenzione dei produttori americani, per cui ho dovuto trovare i fondi per girarlo in Europa. Questo mi ha permesso di avere una libertà di azione che Oltreoceano non avrei mai avuto, di non essere controllato da un sistema produttivo che tende a fagocitare chi vi entra. Nonostante questo resto molto affascinato dal mito a stelle e strisce e ora mi piace lavorare lì.
G.C.: Nella tua carriera hai conosciuto anche dei fallimenti che hanno ostacolato la tua carriera. Vedi ad esempio l’insuccesso di Solo Dio perdona. Che rapporto hai con il fallimento?
N.W.R.: Il fallimento è fantastico! (ride) Quando lo incontri ti rende più forte. Paragono il fallimento al primo rapporto sessuale: anche se magari è andato piuttosto bene, ci si deve comunque lavorare su per migliorare le prestazioni. La creatività è la stessa cosa: c’è bisogna di capire prima cosa non funziona, per poi immaginare che cosa invece funziona. Dico sempre che bisogna trasformare le debolezze in forza; però prima bisogna trovarle queste debolezze. Di conseguenza, l’idea di un possibile fallimento svanisce magicamente dalla testa. Se fai film esattamente come vuoi, beh allora il fallimento dal punto di vista creativo non esiste. Fare il regista significa stare sospeso in una sorta di limbo dove a regnare è il caos. Per resistere in questo caos devi in primis imparare a sopravvivere, a muoverti al suo interno senza farti schiacciare dal peso psicologico. Ci sono momenti in cui pensi di essere il peggior regista sulla faccia della Terra e altri in cui ti senti un Dio. La creatività è la battaglia tra queste due condizioni. Si tratta di una condizione che vivo e continuo a vivere. L’ho vissuta durante gli esordi, ma anche durante Drive e Solo Dio perdona. Dico sempre che è importante affrontare questo tipo di processo, anche se può risultare terrificante e distruttivo. Per me è importante, perché i film che faccio sono delle estensioni di me stesso. Questo processo è un modo per esorcizzare. Allo stesso tempo, mi rendo conto che il cinema è anche un business e che l’unico modo per continuare a fare film è incassare al box office. Per cui, dato che ci sono in ballo questioni economiche, forse la cosa migliore da fare è quella di girare con dei budget più bassi possibile, così da poter almeno recuperare quanto investito inizialmente dai finanziatori, riducendo al minimo i rischi.
La masterclass prosegue e sul palco dell’Aula Magna dell’Università IULM irrompe la guest star Dario Argento, che insieme a Refn daranno vita a un duetto davvero entusiasmante, del quale vi riproponiamo alcuni passaggi. Questa è in assoluto la prima volta che si incontrano, con il danese che ha dichiarato di essersi sempre ispirato al cinema dello storico collega torinese. Dopo un caloroso abbraccio, inizia lo show…
G.C.: Cosa vi piace l’uno dell’altro?
N.W.R.: In un’epoca dove tutto è accessibile, anche grazie a internet, è diventato sempre più difficile mettere in risalto delle peculiarità e soprattutto individuarle. Oggi tutti possono fare tutto. In passato, prima dell’avvento del web, le cose andavano diversamente. Le peculiarità emergevano più facilmente e il cinema non era una cosa che potevano fare in molti. A quei tempi era legata l’idea di dare vita a qualcosa di istintivo. E soprattutto si poteva parlare molto più liberamente, senza scendere necessariamente a compromessi. L’esempio di questo tipo di particolarità è proprio Dario Argento. La sua concezione di cinema aveva qualcosa di originale ancora prima che questa fosse creata. Questo è ciò che mi ha sempre affascinato e stupito di lui. Mi piace questo suo desiderio di non voler cambiare mai il proprio pensiero creativo, nonostante tutto e tutti, nonostante ci sia sempre qualcuno che prova a importi scelte e cose da fare. Penso che questo sia molto importante per un regista. Provo a fatica a replicare sullo schermo alcune sue soluzioni visive, ma non ci riesco. È inimitabile. Vorrei tanto essere una versione giovane di Dario Argento (ride).
D.A.: Anche io come lui sono stato molto influenzato dal cinema del passato: da quello muto a quello espressionista tedesco, passando per quello di Technicolor e persino quello di Walt Disney. Poi naturalmente queste cose le digerisci e le fai tue, riproponendole in un modo personale. Alla fine quasi ti dimentichi quali sono e da dove vengono questi riferimenti.
G.C.: Entrambi avete una passione per il cinema di Mario Bava, cosa vi affascina maggiormente di lui?
N.W.R.: In particolare sono molto legato a Terrore nello spazio, che ho avuto il piacere di presentare, nella sua versione restaurata, al Festival di Torino prima e a quello di Cannes lo scorso maggio. È un film che significa molto per me, perché rispecchia in pieno la mia visione della Settima Arte. È un perfetto connubio tra più elementi: fantascienza, orrore, suspense, mistero, esistenzialismo, melodramma, ha bellissimi costumi e scenografie, oltre a tante domande filosofiche sull’evoluzione della specie umana. Riuscire a catturare e a mettere tutto questo in un unico film non può che essere fonte d’ispirazione, perché dimostra che tutto è possibile.
D.A.: Io l’ho conosciuto di persona, perché ha fatto gli effetti speciali di due miei film. Eravamo molto amici, oltre che colleghi. Andavo spesso a casa sua e suo figlio Lamberto è stato più volte il mio aiuto regia. C’era un legame vero tra le nostre famiglie.
G.C.: Come ti spieghi che il tanto bistrattato cinema di genere italiano sia poi quello che più ha influenzato e appassionato i cineasti da tutto il mondo?
D.A.: Era un cinema che aveva delle idee, che cercava di improvvisare e di raccontare con la macchina da presa; un cinema nel quale si inventavano immagini, che si gettava nell’immaginario e nella pazzia; un cinema che provava ad entrare nella testa delle persone per provare a raccontare le paure, i demoni e le ossessioni, individuali e collettive. Gran parte di questo l’ho ritrovato in The Neon Demon. Il film di Refn è una mitragliata di immagini, di forme e di colori, associati e mescolati senza soluzione di continuità. Davvero notevole.
G.C.: Vi accomuna una grande fascinazione per la violenza. Cosa vi spinge a rappresentarla?
D.A.: La violenza è qualcosa che colpisce nel profondo, che ti rimanda a paure e a mostri che hai provato e immaginato da bambino. La maggior parte delle immagini che ci sono nei miei film sono legate ai ricordi di quando ero bambino: dai lunghi corridoi alle scale, passando per finestre che sbattono. Io ero ossessionato da tutto questo, da tutto questo che nei miei film diventava un insieme di simboli ricorrenti. Non ho mai voluto esorcizzare la violenza.
N.W.R.: Non so perché c’è sempre la violenza nei miei film. A differenza di Dario [Argento], con il rappresentarla cerco di esorcizzare qualcosa che c’è dentro di me. Io tendo a estetizzarla, perché nel momento in cui lo faccio, questa si erotizza e si sessualizza, diventando non fine a se stessa, ma sempre più complessa. Da una parte ci attrae e dall’altra ci ripugna. Di conseguenza, ci coinvolge emozionalmente. Io vengo da una famiglia scandinava ipocritamente borghese. Il fare dei film che parlassero e mostrassero la violenza, è stato e continua ad essere per me una forma di reazione e di rivoluzione nei confronti di quel modo di vivere e di pensare. Poi non dobbiamo mai dimenticare mai che noi esseri umani siamo degli animali. Abbiamo usato la violenza per sopravvivere.
Le lancette scorrono inesorabili ed è giunto il momento dei saluti. Scorrono anche i titoli di coda di questa masterclass con Nicolas Winding Refn. Dopo un caloroso e interminabile applauso cala il sipario sul palco dello IULM.
Francesco Del Grosso