Gocce di pioggia e di sangue
La Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia ha dato e allo stesso ricevuto moltissimo da Zhang Yimou. Il suo nome e alcune delle opere che ne portano l’inconfondibile firma sono scritti meritatamente a caratteri cubitali nella storia e nel palmares della kermesse lidense: da Lanterne rosse (Leone d’Argento nel 1991) a La storia di Qiu Ju (Leone d’Oro e Coppa Volpi per Gong Li nel 1992) e Non uno di meno (Leone d’Oro nel 1999), ai quali si va ad aggiungere un altro titolo rientrato nella line-up del 1997, ossia Keep Cool. Si tratta di un poker che ha lasciato un segno importante e indelebile nel cuore di una manifestazione che nella sua 75esima edizione ha voluto rendere omaggio al cineasta cinese ospitando Fuori Concorso la sua ultima fatica dietro la macchina da presa, ossia Shadow. Invito, questo, che è diventato anche l’occasione per consegnare nelle sue mani il prestigioso premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker 2018, dedicato a una personalità che abbia segnato in modo particolarmente originale il cinema contemporaneo. E lui è uno di quei registi che ha saputo farlo più di tantissimi altri alle varie latitudini, regalando alle platee di tutto il mondo una filmografia di altissimo livello fatta di moltissimi alti e di rarissimi bassi.
Per il suo ritorno in pompa magna al Lido ha scelto di accompagnare un film che si va a collocare nel mezzo della sua sterminata produzione, di quelli che non lasciano il segno per una serie di limiti di natura narrativa e drammaturgica che ne frenano il cammino, ma che allo stesso tempo riescono a mantenersi a galla sulla soglia della sufficienza grazie alla solita spettacolare confezione. Quest’ultima è la scialuppa di salvataggio alla quale Shadow e Yimou si sono aggrappati per arrivare sani e salvi in porto, seppur con le difficoltà che la scrittura ha determinato e messo in evidenza. Nel nuovo e atteso capitolo della sua personalissima rilettura del glorioso filone del wuxiapian, al quale ha ridato insieme ai colleghi Ang Lee, John Woo e Tsui Hark su tutti, ulteriore linfa vitale e una spinta propulsiva con opere come Hero, La foresta dei pugnali volanti, La città proibita e se si vuole anche con il meno riuscito The Great Wall, il regista cinese non è riuscito a trovare l’equilibrio giusto tra forma e contenuto. In particolare siamo lontanissimi anni luce dal primo capitolo della trilogia, con l’opera del 2002 che ad oggi è la vetta massima da lui raggiunta nel genere in questione.
Con Shadow, Zhang Yimou torna al cinema di arti marziali e lo fa con una reinterpretazione del “Romanzo dei tre regni”, un classico epico della letteratura cinese, nel quale racconta la storia di un potente re e del suo popolo che, cacciati dalla loro terra, desiderano riconquistarla. Il re è feroce e ambizioso, ma le sue motivazioni e i suoi metodi sono misteriosi. Il suo gran generale è un visionario, mosso dal solo desiderio di vincere la sua ultima battaglia, ma costretto a imbastire i suoi piani in segreto. Le donne del palazzo sono figure tragiche, strette tra l’essere riverite come dee e trattate come semplici pedine. Poi c’è il cittadino comune, la “persona qualunque” intorno a cui ruotano le forze inesorabili della storia, sempre pronte a inghiottirla. Lo spettatore di turno viene catapultato nella Cina del periodo dei Tre Regni (220-280 circa d.C.), laddove si consuma la vicenda di un uomo e del suo doppio. Definite come “ombre”, queste figure sono esistite sin dall’antichità. Un’ombra deve essere pronta a entrare in azione nel momento critico, quando la vita del suo padrone è in bilico; un’ombra deve fondersi completamente con la realtà, in modo che non sia possibile distinguere vero e falso. Nonostante la mente torni agli affiliati dell’organizzazione segreta dei ribelli, assassini e rivoluzionari de La foresta dei pugnali volanti, Yimou ha il merito di aver portato sullo schermo una tipologia di guerriero del quale la cinematografia e la storia ufficiale non si sono mai voluti occupare. Ma questo a conti fatti resta l’unico spunto davvero interessante di un’opera che esalta le doti visive più che quelle di scrittura di Yimou.
L’eleganza della forma e tutta l’inventiva che da sempre ha caratterizzato il suo cinema qui trovano espressione nella seconda e più convincente parte, con una serie di scene visivamente d’impatto che la CGI, i rallenti, le coreografie marziali e il wire work (vedi l’irruzione nella città di Jinp a colpi di ombrelli con lame e bracciali con balestre incorporate) contribuiscono a rendere ancora più spettacolari. In tal senso, la confezione riesce a sopperire alle suddette mancanze ma non a colmare l’intero spazio aperto lasciato dalla mancanza di un plot e di una scrittura sui quali poter veramente contare. Il che si vede soprattutto in una prima parte che si rivela soporifera, intangibile sul piano della sostanza drammaturgica ed estremamente fragile nei meccanismi mistery che vi sono alla base. A quest’ultimi l’autore prova ad affidarsi per tenersi stretto lo spettatore sino all’ultimo fotogramma utile, ma la prevedibilità di gran parte degli snodi narrativi depotenzializza il tutto.
Francesco Del Grosso