Dio non salvi la Regina
8.851,8 km, di cui circa 350 di trincee e 2.250 di difese naturali. Tranquilli, non stiamo dando i numeri. Quella indicata, secondo le misurazioni effettuate nel 2009 con più recenti strumentazioni tecnologiche (raggi infrarossi, GPS), è l’estensione della Grande Muraglia Cinese, dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità nel 1987 e inserita nel 2007 fra le sette meraviglie del mondo moderno. Decisamente un bel curriculum per l’imponente muro costruito a partire dal 215 a.C. per volere dell’Imperatore Qin Shi Huang, lo stesso a cui si deve anche il cosiddetto Esercito di Terracotta di Xi’an. Se la memoria non ci inganna, per realizzarla ci sono voluti la bellezza di 1.700 anni. Insomma, numeri da record su tutti i fronti. Ed in virtù di questi numeri che nei secoli successivi alla sua costruzione, la celeberrima Muraglia è diventata oggetto di studi, ma soprattutto ha alimentato e generato innumerevoli leggende sul suo conto. The Great Wall di Zhang Yimou, nelle sale nostrane con Universal Pictures a partire dal 23 febbraio, racconta una di esse.
L’ultima fatica del regista asiatico racconta la storia di un gruppo scelto, alle prese con la valorosa difesa dell’umanità su uno dei più iconici monumenti del mondo. Il plot ci porta al seguito di William e Tovar, due mercenari europei, in Cina con una missione: recuperare un po’ della fantomatica “polvere nera”, antenata della polvere da sparo, e portarla in Occidente. I due sopravvivono all’assalto di una creatura sconosciuta di colore verde, di cui conservano un arto reciso. Catturati dalle truppe d’élite dell’esercito cinese, finiscono per combattere al loro fianco contro i mostri verdi, denominati Taotie, che ogni 60 anni minacciano il mondo degli uomini. La Grande Muraglia, dunque, è stata eretta proprio per cercare di fermarli, con ogni mezzo.
In The Great Wall va in scena l’ennesima battaglia tra il bene e il male, dove la posta in gioco è importantissima per la sopravvivenza dell’umanità intera. L’uomo si trova a fronteggiare ancora una volta creature mostruose, sanguinarie e feroci, con la suddetta muraglia a rappresentare l’ultimo baluardo. La lettura della sinossi è sufficiente a intuire che non si andrà più in là del tradizionale e sintetico racconto della fasi cruciali di questo scontro bellico, lasciando dichiaratamente da parte ogni velleità autoriale per quanto riguarda la drammaturgia, la costruzione della narrazione e il disegno dei personaggi. Tali ingredienti sono ridotti all’osso, per un menù che alle parole preferisce i fatti, l’azione e la cinetica. Elementi, questi, che non mancano, anzi abbondano, dando vita sullo schermo a scene adrenaliniche e altamente spettacolari: dal primo attacco dei Taotie alla Muraglia (che riporta la mente a quello di Le due torri) alla cattura di una delle creature nella nebbia, sino al pirotecnico epilogo dentro, fuori e nei tunnel sotterranei del Palazzo Imperiale. E il merito è, oltre che della regia, anche e soprattutto dell’ottimo dialogo che si è venuto a creare tra la CGI, la stereoscopia e le riprese dal vivo. Proprio per questo, consigliamo caldamente la visione in 3D, poiché quella bidimensionale non è in grado di supportare adeguatamente e valorizzare la fruizione. Per cui, coloro che si aspettano spettacolari conflitti consumati sul campo di battaglia non resteranno delusi, mentre coloro che sperano di trovarsi al cospetto di intrighi di potere e machiavelliche dinamiche di Palazzo ne dovranno invece accettare loro malgrado la completa assenza. Il tutto a favore di una sintesi nella scrittura legata a esigenze di box office, che sottraggono il progetto qualsiasi velleità narrativa. Di conseguenza, la storia e i personaggi che la animano non sono altro che lo stretto indispensabile per dare forma e sostanza al plot, anche se qui, come avrete capito, si è puntato più alla forma che alla sostanza.
Il risultato è una storia epica, per un film che non poteva che essere altrettanto epico data la portata del progetto, sia sul versante della messa in scena che da quello della messa in quadro. L’estrema cura nei dettagli su entrambi i fronti ne è la riprova. Vista l’imponenza e la grandiosità del soggetto rappresentato, infatti, il budget per realizzare la pellicola non poteva che essere faraonico, con una spessa complessiva che si aggira intorno ai 135 milioni di dollari, facendone di fatto il film più costoso girato interamente in Cina, con una produzione sino-statunitense alle spalle a staccare gli assegni. Cifre da capogiro, per non dire astronomiche, che avrebbero fatto tremare i polsi a moltissimi cineasti di tutte le latitudini. A moltissimi, tranne che a uno come Zhang Yimou, qui al primo film in lingua inglese, che di kolossal storici e di opere dal forte impatto visivo e produttivo ne ha firmate e ne sa qualcosa. Quanto basta per dare al progetto e alla produzione stessa l’esperienza e le capacità necessarie per portare a termine la lavorazione. E così è stato. C’è da dire che, per quanto concerne la confezione, ogni dollaro speso per portare sul grande schermo The Great Wall è un dollaro speso bene. L’altissima qualità raggiunta e messa a disposizione della causa giustifica ampiamente lo sforzo produttivo profuso per rendere il tutto possibile. Operazioni analoghe, seppur con budget stratosferici a disposizione, non hanno saputo raggiungere i medesimi standard. Ci riferiamo ad esempio a grandi blockbuster di provenienza orientale di recente produzione come Seven Swords e Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma di Tsui Hark, La battaglia dei tre regni e La congiura della pietra nera di John Woo o Dragon Blade di Daniel Lee. Con quest’ultimo, in particolare, si possono trovare numerose analogie, a cominciare dalla joint venture tra Est e Ovest per accalappiarsi le diverse platee, che ha messo a disposizione di Zhang Yimou un cast di all star a stelle e strisce e orientali. Se nel film del collega sudcoreano avevamo trovato Jackie Chan, John Cusack e Adrien Brody, qui è il turno di un folto gruppo capitanato da Matt Damon, nel quale figurano tra i tanti Jing Tian, Pedro Pascal, Willem Dafoe, Eddie Peng e Andy Lau, prestare corpo e voce ai protagonisti del film.
È chiaro, quindi, che l’obiettivo del progetto sia principalmente quello dell’incasso, perché è lo sforzo produttivo profuso per realizzarlo a richiederlo. Come spesso accade, non è tutto oro ciò che luccica. Se le vagonate di soldi possono rappresentare una solida base sulla quale lavorare, nel caso della nuova pellicola del regista cinese la qualità eccelsa della componente visiva e tecnica fa da garante per l’intrattenimento, ma non per il lavoro di scrittura. Nemmeno la presenza di un pezzo da novanta come Tony Gilroy tra gli autori dello script, infatti, ha permesso alla scrittura di svincolarsi da certi schemi logori e sterili del filone al quale The Great Wall appartiene di diritto, dove nella maggior parte dei casi ci si trova in presenza di contenitori ricchi di azione, avventura e mistery, ma non di vicende alle quali appassionarsi e dalle quali lasciarsi travolgere. Insomma, se cercate la stessa poesia e bellezza intrinseca delle immagini (qualcosa si intravede nella bellissima scena del funerale del Generale) e delle coreografie marziali, mescolate sapientemente con trame stratificate e di spessore, della sua nota trilogia wuxia (Hero, La foresta dei pugnali volanti e La città proibita), allora mettetevi l’anima in pace sul fatto che qui non le troverete.
Francesco Del Grosso