Un silenzio che fa male
Il bianco e nero si sa non passa mai di moda, al contrario porta con sé, conservando intatto, quel fascino intrinseco con il quale i D.O.P. delle varie latitudini continuano a vestire le immagini dei film che registi e produttori affidano loro. Il risultato il più delle volte è un susseguirsi di fotogrammi di straordinaria bellezza, quasi da mozzare il fiato, la stessa che abbiamo ritrovato nella fotografia firmata a quattro mani da Erik Põllumaa e Sten-Johan Lill per l’opera seconda di Martti Helde, Scandinavian Silence. Un lavoro di grande pregio, il loro, che non è passato inosservato tanto a nostri occhi quanto a quelli dei membri della giuria della 21esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce che lo hanno premiato. Ed con questo meraviglioso bianco e nero, in uno gioco cromatico di sfumature e di sovrapposizioni con i panorami innevati che fanno da cornice alla storia, che il cineasta estone ha dipinto un dramma psicologico con elementi di thriller sul ricongiungimento tra due persone. Il loro viaggio attraverso il paesaggio invernale le costringe ad andare alle origini di un atto violento verificatosi anni addietro. Il loro passato irrisolto spinge i personaggi a fare una scelta che determinerà il futuro di entrambi.
Helde rende i silenzi assordanti, silenzi che come in questo caso fanno più male delle parole, quelle poche che un fratello e una sorella dal passato tormentato si scambiano a oltranza all’interno dell’abitacolo di un’automobile che sfreccia su strade giacciate nel mezzo di un nulla innevato. Il road movie anche stavolta si presta per affrontare il tema della riconciliazione tra consanguinei, che trovano lungo il percorso l’occasione per accorciare distanze emotive che apparivano insanabili. Scandinavian Silence lo usa in tal senso, per poi costruirci sopra un giallo minimalista, incastonato all’interno di un dramma familiare a incastro che gioca con i cambi prospettici e i ribaltamenti di fronte, in cui i personaggi si cedono a turno la posizione dominante. Con questo efficace escamotage narrativo e drammaturgico che abbatte la linearità temporale, generando a sua volta un loop che muta e aggiunge tasselli al mosaico, prende forma l’architettura di un racconto che svela le carte con lo scorrere dei minuti.
Questo scambiarsi dei ruoli, ben supportato dalla scrittura di un impianto dialogico scarno ed essenziale e dalle buone performance davanti la macchina da presa di Rea Lest e Reimo Sagor, rappresenta il punto di forza della pellicola. Una pellicola arricchita ulteriormente da momenti di puro lirismo (le immagini dei droni sui paesaggi innevati) e di rigore formale che non possono lasciare indifferenti chi vi entra in contatto visivo. Dall’altra parte, Scandinavian Silence non sarà originale nel plot e nella sua costruzione, ma riesce comunque a tenere a sé l’interesse e l’attenzione di uno spettatore che vuole fare propri i motivi che hanno provocato la frattura tra i due personaggi. Vedere per credere.
Francesco Del Grosso