Omaggio a Sydney Pollack
Un artigiano di lusso, lo hanno definito. Un regista per tutte le stagioni, sia pure nell’accezione positiva di un’espressione gergale che intendeva esaltare il suo essere eclettico, frequentatore di generi diversi sempre riuscendo a mantenere mediamente buoni standard qualitativi.
Invece Sydney Pollack, scomparso il ventisei Maggio scorso all’età di settantaquattro anni stroncato di un male incurabile, era un autore, anzi forse l’Autore per eccellenza per l’incredibile abilità di usare a proprio piacimento le porte girevoli dell’industria hollywoodiana, entrandovi per garantirsi le entrate economiche necessarie al suo lavoro ed alla sua esistenza di gentiluomo d’antan ma soprattutto uscendovi per preservare la sua integrità d’artista.
Pollack non scriveva, almeno ufficialmente, i film che dirigeva. Si appoggiava sempre a sceneggiature preesistenti. E forse qui nasce l’equivoco su di un artigianato comunque “d’alto lignaggio”. Ignorando però quanto un regista può mettere di proprio in una script altrui. In determinati casi davvero molto, anche se magari -ed è sempre stata una dote fondamentale, soprattutto nell’ambito del dorato mondo dell’industria- si possiede un talento particolare nel dissimulare ciò.
La carriera di Sydney Pollack decolla nell’imminenza dei fatidici anni settanta. E’ il 1969 quando dirige Non si uccidono così anche i cavalli (They Shoot Horses, Don’t They?), durissimo film lungimirante che paradossalmente “salta” l’idealismo del decennio che stava per sopraggiungere per proiettarsi con asprezza all’arrivismo di riflusso che avrebbe caratterizzato l’epoca immediatamente successiva. Fu subito nomination all’Oscar, inaspettata. Poi, con lo scoccare dei seventies, un filotto di pellicole memorabili con dentro un paio di capolavori mascherati, guarda un po’, da opere di genere. Tipo Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, 1972), lirico e molto atipico western esistenzialista realizzato con l’amico e compagno di tante avventure cinematografiche Robert Redford. Oppure il magnifico I tre giorni del Condor (Three Days of the Condor, 1975), thriller al calor bianco, sempre interpretato dalla faccia onesta di Redford, sugli sporchi giochi del potere quando ancora l’America sapeva mettersi in discussione fino in fondo ed il Cinema era considerato davvero come una sorta di coscienza civile della società. In mezzo c’erano stati il romantico con rimpianto Come eravamo (The Way We Were, 1973) ed il teso Yakuza (The Yakuza, 1974), scritto da Paul Schrader ed interpretato dal vecchio leone Robert Mitchum. A chiudere un periodo per molti versi irripetibile ecco Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman, 1979), autentica e sincera ode ad un mondo al crepuscolo con Pollack sempre coadiuvato da Robert Redford davanti alla macchina da presa.
Negli anni ottanta arriva la gloria. Le avvisaglie si vedono grazie all’intelligente e molto divertente commedia “en travesti” Tootsie (id, 1982) in cui Dustin Hoffman disegna un personaggio -un attore disoccupato che si finge donna per raggiungere inopinatamente il successo e l’amore- ormai da tempo entrato di diritto nella Storia del Cinema. Poi la pioggia di Oscar con La mia Africa (Out of Africa, 1985), con la classica, forse fin troppo, ricetta composta da un altamente professionale mix di avventura e melodramma, con il secondo a prevalere e Karen Blixen, la scrittrice del testo ispiratore, un po’ presa a pretesto.
Fino ai giorni nostri segue una carriera a fasi alterne. Qualche passo falso, tipo Havana (id, 1990) sterile tentativo di rifare implicitamente Casablanca disconosciuto dallo stesso Pollack, oppure il vero e proprio remake di Sabrina (id, 1995) fallita utopia di ricreare un’epoca cinematografica scomparsa da tempo; ma anche buoni prodotti – questi sì di genere – come Il Socio (The Firm, 1993), sorta di thriller morale da un best seller di John Grisham con la star Tom Cruise ma anche, sullo stesso filone, il penultimo e sottovalutato The Interpreter (id, 2005), qualcosa di più di un semplice film “alimentare” che a posteriori può invece venir letto come un aggiornamento del genere in questione ad un’epoca profondamente differente.
Sydney Pollack ci lascia dunque con un “piccolo” documentario, Frank Gehry – Creatore di sogni (Sketches of Frank Gehry, 2005), sulla vita di uno dei più celebri architetti contemporanei. Quasi una dichiarazione d’amore per le mille facce del Cinema, quell’arte che lui amava così tanto da dedicarvi tutto se stesso anche come produttore (tra gli ultimi il bel Michael Clayton) e spessissimo come attore. Risuonano le parole del suo dialogo con Tom Cruise nell’ultimo capolavoro kubrickiano Eyes Wide Shut: “La vita continua, finché non continua più”. Vivere al meglio, il segreto. Arrivederci, Mr. Pollack.
Daniele De Angelis