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Richard Donner, figlio di un Dio minore

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C’è un posto per tutti

Noi che ci reputiamo critici cinematografici sappiamo bene, qualche volta, cosa significhi essere cattivi. Perfettamente consapevoli di essere tali. Esaltiamo l’autorialità dei vari John Carpenter, Walter Hill, Brian De Palma e William Friedkin – solo per fare qualche nome di regista statunitense di una certa epoca – ed usiamo a mo’ di rovescio della medaglia registi invero degnissimi tipo John Badham o Richard Donner, a titolo esemplificativo di directors esclusivamente commerciali. Sbagliando, ovviamente. Perché il cinema è anche – e forse soprattutto – una forma alta di intrattenimento da realizzare con acume e professionalità.
Ora che Richard Donner se ne è andato, alla veneranda età di novantuno anni, pare forse il caso di gettare uno sguardo più approfondito ad una carriera comunque capace di lasciare una decisa impronta in ambito hollywoodiano. E non solamente alla voce incassi. Difficilmente, tra attrici ed attori, si è trovato qualcuno incline a lamentarsi dei suoi metodi. Anche tra star del calibro di Marlon Brando e Gregory Peck. Questo proprio perché Donner non era certo un autore che imponeva una visione cinematografica precisa; piuttosto un compagno di viaggio, una figura professionale capace di venire incontro alle esigenze di ognuno. Un uomo che veniva dalla gavetta, tanta e televisiva. E per questo in grado di conoscere alla perfezione metodologie e ritmi di lavorazione, evitando qualsivoglia stress a coloro che hanno avuto la fortuna di lavorare assieme a lui. Gente come Mel Gibson e Danny Glover, l’indimenticabile coppia di Arma Letale, lo ricorda oggi con affetto e gratitudine, riconoscendone la grandissima importanza nell’evoluzione delle rispettive carriere. Quasi una visione altruistica del mestiere, in un mondo in cui continuano a regnare, come del resto in tutto lo star system, ipocrisia e dollari sonanti.
A proposito di botteghino c’è da sottolineare come Richard Donner sia stato quasi sempre una garanzia. Un regista con un acume insolito nel leggere i gusti del pubblico pagante, in tale prerogativa accompagnato dalla moglie Lauren Shuler, compagna di una vita nonché storica produttrice di lungometraggi di ottima risonanza al box office, sia diretti dal marito che da altri. Come spesso capita, una donna avvolta nell’ombra maschile ma di grandissima, decisiva, importanza.
Dopo un paio di film interlocutori e moltissima televisione, per Donner il successo arriva dopo i quarant’anni; quando, nel 1976, gira l’horror Il presagio (The Omen). Impostazione inevitabilmente classica, bambini satanici e travolgente successo. Nonché primo giro di giostra al luna park dei generi. Donner si afferma immediatamente come un nome sicuro al quale affidare grosse produzioni. Tipo quella di Superman (1978), blockbuster molto filologico e assai poco fumettistico, capace di radunare un cast all-stars (tra cui Marlon Brando in rapida e ben remunerata apparizione) e lanciare la carriera dello sfortunato Christopher Reeve nei panni del celebre supereroe. Altro successo globale annunciato, che il tocco greve di Zack Snyder, in epoca contemporanea, può solo sognarsi di emulare. Esautorato dalla realizzazione del sequel per contrastanti visioni artistiche con la produzione, Donner cavalca abilmente prima la moda del fantasy con Ladyhawke (1985), suggestiva fiaba girata nella splendida cornice italiana. Poi si dedica al teen-movie avventuroso, unendosi alla produzione di Steven Spielberg nella realizzazione di un titolo di culto come I Goonies (1985). Pur non risultando di qualità eccelsa, il film fa breccia nei cuori adolescenziali ibridando con sagacia il classico coming of age ad una struttura diegetica che ricalca I predatori dell’Arca Perduta di Spielberg, il cui apporto risulta assolutamente evidente.
Arriviamo al 1987, al primo capitolo di una saga destinata ad entrare nell’albo d’oro di Hollywood: Arma Letale (Lethal Weapon). Il primo film si prende abbastanza sul serio, risultando un teso action-noir. La Warner Bros. comunque subodora le potenzialità della coppia di sbirri composta da Martin Riggs e Roger Murtaugh (rispettivamente interpretati da Mel Gibson e Danny Glover) dando a Donner carta bianca per i vari sequel. In tutto saranno tre, con abbondanti dosi di ironia a sommarsi all’azione, esaltando quel cinema ibrido tanto caro al regista newyorchese. Curioso notare che lo scorso anno, in piena pandemia, si era parlato della realizzazione di un quinto episodio. Sarebbe stato molto interessante vedere all’opera la coppia di sbirri ormai alle soglie della casa di riposo. Un film, forse, dall’aura crepuscolare, tra risate a denti stretti e sparatorie al rallentatore.
Altre opere andrebbero citate, nel corso di una filmografia non ricchissima ma sicuramente degna di nota. Film non particolarmente riusciti (S.O.S. Fantasmi del 1988, rilettura dickensiana non troppo originale. Maverick del 1994, inutile tardo-western tratto dall’omonima serie televisiva) affiancate ad operazioni commerciali a rappresentare veicoli di ulteriore popolarità per dive e divi in libera uscita (il dittico Assassins con Stallone e Banderas, del 1995; oppure Ipotesi di complotto, con Julia Roberts ed il fedele Mel Gibson, datato 1997). Film che poco aggiungono e nulla tolgono alla carriera di un regista votato all’intrattenimento di lusso, da declinare in ogni sua forma codificata. Ci piace però ricordare Donner con il suo ultimo lungometraggio, tra i più personali che abbia girato. Solo due ore (16 Blocks, 2006) sorta di western metropolitano di ambientazione contemporanea in cui i buoni (Bruce Willis) si mascherano da cattivi ed i cattivi sembrano buoni. Ed un epilogo dove risaltano l’amicizia e l’importanza della parola data. Quei piccoli dettagli che hanno fatto grande quel cinema classico di cui Donner è stato cultore tra gli addetti ai lavori. Un terreno fertile dal quale tutti noi, dall’altra parte della barricata, ci siamo comunque nutriti in abbondanza. Anche a costo di operare, una volta “cresciuti”, qualche superfluo distinguo.

Daniele De Angelis

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