Vita, morte e resurrezione
Cineasta d’esperienza, parso per l’occasione decisamente maturo e consapevole dei propri mezzi espressivi, Mateo Gil non soltanto ha già diretto diversi corti e lungometraggi (tra cui spiccano Blackthorn – La vera storia di Butch Cassidy, datato 2011, e il più remoto Nadie conoce a nadie, realizzato invece nel 1999), ma si è imposto all’attenzione generale soprattutto in qualità di stretto collaboratore del talentuoso Alejandro Amenábar. Ne ha infatti accompagnato la crescita lavorando, assieme a lui, alle sceneggiature di pellicole importanti come Tesis (1996), Apri gli occhi (1997), Agora (2009). Ed è proprio il tocco del miglior Amenábar, assieme a un calibrato minimalismo SciFi che può ad esempio ricordare Gattaca, ciò che gradualmente conquista di un film come Realive (Proyecto Lázaro), dove la cura dell’immagine si sposa con un non così comune spessore filosofico, esistenziale.
Presentato in concorso a Science Fiction 2016, il lungometraggio diretto da Mateo Gil è un’intensa parabola sulla paura della morte e sul prolungamento della vita, sapientemente orchestrata su due diversi piani temporali: gli ultimi crepuscolari bagliori dell’esistenza di Marc, giovane professionista in carriera condannato da un brutto male a scomparire in pochi mesi, ed il suo faticoso risveglio nel mondo del futuro, avendo l’uomo deciso a suo tempo di farsi ibernare in punto di morte. Non senza ulteriori traumi emotivi, considerando che la donna cui era unito da un forte ma tormentato legame sentimentale aveva provato almeno all’inizio un certo ribrezzo, per questa sua scelta.
Caso vuole che mentre ci si accingeva a scrivere del film, uno dei migliori visti durante il triestino Science + Fiction, in TV vari telegiornali rimpallavano le polemiche sorte in Inghilterra (e altrove), per la decisione di un’adolescente britannica, malata terminale, che scavalcando anche la volontà di uno dei genitori ha ottenuto di far criogenizzare il proprio corpo, da morta, in un centro appositamente attrezzato degli Stati Uniti. Materia che scotta, quindi, sia sotto il profilo etico che dal punto di vista del dibattito scientifico.
La cosa meravigliosa è che il cineasta iberico, nel rapportarsi a un materiale narrativo così incandescente, per quanto da conservare al pari dei corpi a diversi gradi sotto zero, ha saputo tenere un miracoloso equilibrio tra la debordante componente emotiva dell’opera e la sua complessa stratificazione, semantica e formale. Le componenti del racconto sono di prim’ordine: il drammatico risveglio della “creatura”, coerentemente con l’archetipo e col mito di Frankestein; le riflessioni sull’eternità di Borges; un’atipica figura di “mad doctor” resa inquietante proprio dal suo sorriso gentile e suadente; il rifiuto del singolo di un prolungamento artificiale dell’esistenza, che ai più cinefili potrebbe ricordare anche Zardoz, sottostimata pellicola di John Boorman; il tema del doppio, declinato tanto al maschile (riconoscersi o non riconoscersi nel proprio passato, nell’accidentato percorso di morte e rinascita?) che al femminile (l’amore di un tempo, solo in parte rispecchiato nel differente affetto, nato per una giovane donna del futuro); l’annoso e irrisolvibile contrasto tra Scienza e Natura, presente negli slanci futuristici di tanto cinema.
Ebbene, in Realive (Proyecto Lázaro) questo magma continua a ribollire fino allo sconcertante epilogo, scorrendo sui due binari (anche fotografici) di un passato ripreso con tenue malinconia, tramite caldi ma ruvidi fotogrammi da “indie movie” d’oltreoceano, ed un mondo del futuro estremamente algido, asettico (in stile Gattaca, quindi), dietro la cui maschera di perfezione continuano ad agitarsi sotterranee tensioni. E in questa polisemica alchimia, il lungometraggio di Mateo Gil rivela ancora una volta l’impronta di un mentore come Amenábar, ugualmente capace nei suoi film più riusciti di fondere approccio razionale e prepotenti slanci emotivi.
Stefano Coccia