L’oro di Napoli
Quando, nel 1961, fu pubblicato dalla Bompiani, “Ferito a morte” irruppe nell’ecosistema editoriale italiano come una specie aliena, un’acacia spuntata sulla sponda di un lago alpino. Nel paesaggio di una letteratura di qualità improntata a moduli narrativi assai più tradizionali, suscitò un certo scalpore un romanzo che, tra dilatazioni e divagazioni temporali, flussi di coscienza, slittamenti del punto di vista, deformazioni soggettive e, ancora, il resoconto di una mattina che si espande nel racconto di anni e il suono di voci che paiono attraversare uno spazio più interiore che fisico, sembrava emulare le più audaci sperimentazioni della prima metà del Novecento europeo e americano. La critica si divise, le vendite abbondarono, il premio Strega suggellò la riuscita dell’impresa. E l’autore, quel Raffaele La Capria, fu investito da una notorietà tenorile.
Non solo. Proprio “Ferito a morte” rappresentò, per lui, l’asse viario che l’avrebbe condotto ai distretti della settima arte. Leoni al sole, esordio di Vittorio Caprioli dietro la macchina da presa, non ne è l’adattamento, ma un parente prossimo di certo sì, perché il personaggio di Philippe Leroy, che vive d’avventure e di espedienti, impollinando le isole campane, come altrettanti fiori, del suo fascino malandrino, fuoriesce direttamente dalle pagine del libro, dove si era fatto conoscere come il fratello scapestrato del protagonista Massimo De Luca. Accanto a sé, troverà, nel film, distribuito, anch’esso, nel ‘61, una manica di sfaccendati che, tra ciance, millanterie e assedi alla femmina per lo più fallimentari, si agglutina in un ozio conservativo e sterile, metafora del male spirituale di molto Sud, sineddoche, forse, dell’intero Paese.
Mentre la carriera letteraria dello scrittore proseguiva senza mai rinnovare il successo di “Ferito a morte”, il cinema costituì un fedele compagno di strada, benché lo sceneggiatore abbia goduto, sempre, di una visibilità inferiore al romanziere e al saggista. O al personaggio pubblico, introdotto, dalle nozze con Ilaria Occhini, nel minareto dinastico dell’aristocrazia culturale (l’attrice era, come noto, la nipote di Giovanni Papini).
Capace di farci riflettere, indignare, commuovere, divertire, anche da sceneggiatore La Capria si distinse. Magari accanto a due imprescindibili amici di gioventù, due esponenti dell’intellettualità partenopea con i quali, studente di giurisprudenza, aveva condiviso, nell’immediato dopoguerra, gli entusiasmi redazionali del quindicinale Sud, un tentativo di sprovincializzare le patrie lettere compromesse dall’autarchia e dai travagli del conflitto. Insomma, Francesco Rosi e Giuseppe Patroni Griffi. Il capomastro del cinema d’impegno e di denuncia e il raffinato uomo d’inchiostro e di teatro. Con il primo, La Capria sceneggiò, per cominciare in bellezza, Le mani sulla città, Leone d’oro a Venezia nel 1963 e capolavoro di inestinta attualità: dopo tutto, che cos’è la speculazione edilizia, se non lo sciagurato coacervo di deterioramento ambientale, malapolitica e criminalità additato da Rosi? Lo era allora, lo è ora. Inestinta attualità, appunto. Sorretta da una modernità formale stupefacente: il narratore che si era fatto valere per il suo carattere innovativo al fianco di un cineasta così: coerente connubio. Il sodalizio proseguì, poi, lungo e fruttuoso. Dopo l’intermezzo, fastoso e colorato, ma francamente perdibile, di C’era una volta (1967), capatina nell’immaginario fiabesco di Giambattista Basile, il ritorno al cinema di sostanza significò Uomini contro (1970), dolente lamentazione, tratta da “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, dell’ingiustizia insita in ogni cataclisma bellico, e Cristo si è fermato a Eboli (1979), l’abbraccio forastico, intriso della struggente verità di Carlo Levi, tra due Italie lontane ma aggiogate allo stesso destino di sottomissione. Opere nelle quali il talento affabulatorio di La Capria si percepisce nitidamente. Come, d’altronde, nell’unica pellicola che costui scrisse per Patroni Griffi, Identikit (1974), ricostruzione degli ultimi scampoli di vita di una straniera, niente meno che Liz Taylor, trovata cadavere. Un thriller sofisticato e meditabondo.
Nel giallo psicologico, in vero, La Capria si era già cimentato insieme a Luigi Comencini; e l’esito, encomiabile, era stato Senza sapere niente di lei (1969), in cui l’avvocato assicurativo Philippe Leroy viene ammaliato da una Paola Pitagora misteriosa e mortifera. Al copione, collaborò anche Suso Cecchi D’Amico. Ad alcuni dei titoli citati prima, Tonino Guerra. Ciò testimonia che non furono solo grandi registi a tracciare il cursus di La Capria, ma anche il confronto, alla pari, con le migliori penne in campo.
Al territorio natio e ai suoi serbatoi di storia e storie, lo sceneggiatore tornerà con Lina Wertmüller e con Sabato, domenica e lunedì (1990) e Ferdinando e Carolina (1999). Ma, in fondo, Raffaele La Capria non è mai stato un autore vernacolare. Oltre a essere un romano d’adozione alieno a campanilismi, ha incarnato un modello di cosmopolitismo senza preclusioni, esercitando sempre sulla realtà uno sguardo ampio abbastanza da inglobarne anche le più remote propaggini. Uno sguardo limpido e penetrante.
Dario Gigante