L’ultimo metrò
Regia: François Truffaut
Titolo originale: Le dernier métro
Cast: Catherine Deneuve, Gérard Depardieu, Heinz Bennent
Genere: drammatico
Durata: 131′
Sceneggiatura: François Truffaut, Suzanne Schiffman
Fotografia: Néstor Almendros
Montaggio: Martine Barraqué
Scenografia: Jean-Pierre Kohut-Svelko
Musica: Georges Delerue
Sinossi: Al Théâtre Montmartre la regia degli spettacoli è affidata a Lucas Steiner (Heinz Bennent). Durante l’occupazione nazista della capitale francese, l’uomo, ebreo per nascita, è costretto alla fuga. Jean-Loup Cottins (Maurice Risch) dirige al suo posto la pièce La disparue. Colpo di scena dopo la prima mezz’ora di film: Steiner non è partito e da dietro le quinte, nascosto in uno scantinato, detta le indicazioni di regia alla moglie e prima attrice Marion (Catherine Deneuve). L’attore Bernard Granger (Gérard Depardieu) si innamora della donna. L’uomo, venuto a conoscenza del suo segreto, sa che Marion non potrà mai amarlo.
E’ il settembre del 1980. Nei cinema debutta L’ultimo metrò. Dopo aver omaggiato il mondo della Settima Arte con Effetto notte, François Truffaut si concentra sulla vita frenetica degli uomini e delle donne di un teatro parigino. Tutti lottano per sopravvivere durante l’occupazione tedesca del 1942. Il film è il risultato di una lenta e lunga gestazione emotiva per cui il cineasta, bambino di appena dieci anni al tempo della storia narrata, decide di raccontare quel periodo storico in particolare. Di quegli anni, il piccolo François rammenta la casa vuota, le ore passate in fila per ottenere un po’ di cibo. La pellicola ha inizio quando una voce fuori campo ci aggiorna sul bollettino di guerra. Il narratore parla di Parigi sotto i bombardamenti mentre davanti ai nostri occhi scorrono immagini fotografiche d’archivio.
Per i parigini è vitale salire sull’ultimo treno, il popolo s’affretta per i corridoi della metropolitana. E’ necessario montare sul metrò prima delle 23.00 per non essere presi in ostaggio o, peggio, fucilati dai Tedeschi. Ecco un ricavato tratto dalle dichiarazioni di Truffaut prima dell’uscita del film: “Dirigendo L’ultimo metrò ho voluto soddisfare tre desideri: mostrare il dietro le quinte di un teatro, evocare il periodo dell’Occupazione e dare a Catherine Deneuve un ruolo di donna responsabile (…) Ne risulta un film d’amore e d’avventura che esprime, io spero, la mia avversione per tutte le forme di razzismo e d’intolleranza, ma anche il mio profondo affetto per quelli che hanno scelto il mestiere dell’attore”. La sceneggiatura è stata realizzata con la collaborazione di Suzanne Schiffman e l’opera è il frutto di una meticolosa documentazione realizzata tramite i ricordi, le memorie dei direttori di teatro del tempo. Ad esempio, l’alterco avvenuto al ristorante tra il critico pro-nazista Daxiat e l’attore Bernard Granger è ispirato a un vero episodio della vita di Jean Marais, scritto nel suo diario Storia della mia vita. Marais litigò furiosamente con il critico filonazista Alain Lambreaux, reo di aver stroncato la pièce di Cocteau La machine infernal senza avervi mai assistito. E tuttavia Truffaut non è intenzionato alla realizzazione di un film meramente politico. Il suo più vivo interesse è rivolto ai personaggi e ai loro sentimenti. L’ultimo metrò è uno spettacolo nello spettacolo, un film dentro a un film.
Questo permette a Truffaut una profonda riflessione sulla Settima Arte. A quei tempi i parigini affollavano i teatri, i concerti, i cinematografi. L’autore racconta con minuzia di dettagli la quotidianità dei cittadini francesi (i ricchi, i privilegiati) sotto l’occupazione tedesca. I personaggi entrano ed escono da ristoranti e cabaret, non risparmiandosi nell’acquisto di prodotti di lusso. In quegli anni così difficili prenderà piede il mercato nero. Un abisso separa i poveri dagli abbienti. A fine giornata, il proletariato si preoccupa, per quanto può, di riempirsi lo stomaco. Il popolo coltiva il tabacco in giardino: la pianta è un investimento prezioso per gli scambi di merci. La gente si rifocilla nei limiti dettati dalla carta dei razionamenti. Truffaut narra le vite di attori e artisti, dentro e fuori dai teatri. All’aperto, tra la gente, suonano musicisti di strada, assai numerosi al tempo della storia narrata. I manifesti appiccicati ai muri, lungo le rues, sono un’attrattiva a scordare il presente immergendosi in un mondo altro, fatto di sogni. E’ il tempo dei Parenti terribili di Cocteau. Per descrivere l’ambiente della storia, il teatro e la vita dietro le quinte, Truffaut inizia dal buio, un’oscurità in cui poche lumi rischiarano le sembianze degli attori. Una scelta ben precisa volta a sottolineare la precarietà di tante vite costrette alla frustrazione e all’insicurezza.
L’unica fonte luminosa è quella proveniente dai teatri, luoghi privilegiati in cui il popolo parigino, tra risate e lacrime, trova rifugio dimenticando per qualche tempo le angosce del presente. Truffaut si concentra su tre temi in particolare: la necessità di un continuum nell’arte nonostante le avversioni dettate dalle difficoltà in tempo di guerra ( anche in prigione il bisogno di esprimersi rimane insopprimibile), la costrizione al confinamento e la costruzione del triangolo amoroso Steiner-Marion-Bernard.
L’ultimo metrò non è soltanto una romantica storia d’amore, ma anche e soprattutto un film di storia e sulla Storia. Truffaut si avvale della grammatica sonora e visiva propria del documentario storico. La voce fuori campo che introduce le storie dei protagonisti, le fotografie d’archivio sono i sintomi di una narrazione tesa a documentare la storia di un popolo sotto assedio. Dice il regista: “Il periodo storico ha contato molto”. Aggiunge inoltre : “Il film è un affresco dell’Occupazione tedesca”. Truffaut ci conduce per mano nel cuore della società francese del 1942. Il film ha inizio sulle note di “Mon amant de saint-Jean”, cantata da Lucienne Delyle (https://www.youtube.com/watch?v=93_pv-XWHpQ). L’incipit è uno sfrigolio di fonografo, sottofondo a un tappeto di note lente in decrescendo per una melodia dolceagra. La musica introduce i tempi bui della storia a venire. L’azione si colloca per lo più in spazi chiusi, intimi. Tutte le scene sono girate al riparo di scantinati, all’interno di bar, ristoranti, camere d’albergo, angoli di strada. Una fotografia intonata ai colori dell’ambra cangiante in rosso rubino illumina lo schermo.
Ogni personaggio, ognuno a suo modo, trasuda fascino. Le immagini irradiano calore misto a palpabile sensualità. L’ultimo metrò è un’esperienza sensoriale che si concretizza in un forte piacere visivo. Truffaut attinge dalla propria filmografia, rendendole omaggio: Marion, Bernard e Lucas costituiscono un triangolo amoroso a immagine dei protagonisti di Jules et Jim. L’amore in ogni sua forma è argomento di dibattito tra i favoriti dell’autore. A fine pellicola i protagonisti salgono alla ribalta per salutare il loro pubblico. Marion prende per mano Lucas e Bernard. Il triangolo è l’unica soluzione?
Il film nella sua interezza è percorso da due fondamentali tematiche: l’illusione e l’artificio. Ne consegue una sapiente logica cinematografica in grado di amministrare l’uso delle luci e degli spazi. Il teatro è prima di ogni cosa un palcoscenico, una sala, una macchia di colore; il teatro è il luogo dell’intrigo, nicchia privilegiata dove i personaggi si raccontano. Quel che accade all’esterno, nella vita reale, non viene mostrato. A questa partizione degli ambienti si aggiunge il sotterraneo dove Lucas trova rifugio, un luogo d’ombra. Per Truffaut un film sull’occupazione tedesca deve necessariamente svolgersi nella semioscurità. L’ultimo metrò procede tra il buio e la luce che accompagnano i passi di Marion dal dietro le quinte allo scantinato. La prima visita della donna al marito è la discesa verso un’oscurità progressiva, scandita dall’apertura di porte e serrature. Al buio pesto segue un primo piano del volto di Lucas.
Alla fine della guerra l’uomo si precipiterà temerariamente all’esterno per vedere la luce del sole. Il tempo del film è diviso tra notte e giorno – da ciò l’importanza del coprifuoco che obbliga spesso Marion a trascorrere la notte al Montmartre . Lo spazio teatrale si divide dunque in “sopra” e “sotto”, “luce” ed “ombra”. A queste bipartizioni corrisponde la scissione sentimentale di Marion. Il film è teso verso la rivelazione finale, l’incontro tra Lucas e Bernard per cui Marion rivela il suo segreto a quest’ultimo. I rapporti tra personaggi si strutturano secondo il “modo” teatrale, tramite la messinscena. Bernard vede per la prima volta Marion attraverso una porta socchiusa mentre la donna comunica a Jean-Luc la sua decisione di licenziare un attore ebreo. Attraverso un’altra porta egli assiste al congedo mentre un gioco di ombre cinesi riprende la messa in scena de La disparue di Lucas Steiner. Catherine Deneuve è artefice di un personaggio femminile, un ideale di donna emancipata e docile a un tempo, protagonista di una seduzione discreta, garante dei valori demoliti dalla rivoluzione sessuale. A fine pellicola, ella ristabilisce quell’ordine che si credeva perduto. E’ come se Truffaut avesse disegnato un proprio autoritratto: un uomo a due facce e in mezzo l’eroina della storia.
Egli è a un tempo Bernard Granger (infantile e carnale), colui che ama le donne e giunge al Montmartre tentando di sedurre Arlette e Steiner, il regista che ascolta di nascosto le repliche del suo dramma da una presa d’aria. Marion saluta il pubblico e prende la mano dell’uno e dell’altro, delle due facce dello stesso François.
Chiara Roggino