L’orgoglio di essere noi
C’erano una volta gli anni ottanta, in Gran Bretagna. La Thatcher al governo, la chiusura delle miniere di carbone, l’aids che imperversava, la conseguente ulteriore crescita del (ri)sentimento omofobico. Davvero verrebbe voglia di considerare chiuso una volta per tutte quello specifico periodo storico; poi ci si accorge che determinate problematiche restano di stretta attualità anche nel presente – e lo resteranno, purtroppo, anche nel futuro – quindi ci si convince a riaprire il libro dei ricordi, per le nuove generazioni quello di una parabola magari poco conosciuta. Operazione certamente benvenuta, se si tratta di ammirare lungometraggi come questo Pride, diretto da Matthew Warchus.
La vicenda ivi narrata ha dell’incredibile, ma solamente se non ci si rende conto che sono state proprio le utopie ha ridisegnare le coordinate della Storia, sia quella che viene studiata nei libri di testo ma soprattutto quella che andrebbe conservata per sempre all’interno del proprio cuore. Da un punto di vista squisitamente socio-antropologico Pride fornisce una risposta inequivocabile alla domanda su cosa possa accadere quando due mondi – intesi come singole comunità – distanti in teoria anni luce finiscono con l’entrare in contatto. Gli esiti possono essere disastrosi, ma anche sorprendenti, soprattutto quando si tratta di persone che versano in uno stato di emarginazione o estremo bisogno. Pride infatti racconta di uno stranissimo incontro. Quello tra un piccolo gruppo di attivisti omosessuali (uomini e donne di età variabile) londinesi che non accettano di essere ghettizzati rimanendo in uno stato di quieta passività, e quello di un paesino di minatori gallesi in sciopero, che non accettano i soprusi di un potere politico il quale mette a rischio la sopravvivenza loro e delle rispettive famiglie. Per cui, in una sorta di meraviglioso gioco nel quale si mescolano con disinvoltura tradizioni e abitudini opposte e ben radicate, i gay decidono di sostenere in concreto la lotta dei minatori. Londra e il Galles del sud sono lontani. I pregiudizi ancora molto, troppo vicini. Pride continua a raccontare questa sorta di big bang, con qualche rischio di scivolata nella retorica del facile sessismo e antisessismo, tuttavia senza sentimentalismi superflui. Il messaggio non è fastidiosamente indotto ma emerge dalle sfumature della sceneggiatura: solo se ci si conosce a fondo, si può riuscire a comprendersi. Il grande merito di Matthew Warchus e Stephen Beresford (autore dello script) non risiede tanto nell’aver tratteggiato ogni personaggio del film con estrema precisione e realismo; quanto l’essere riusciti a trasmettere quell’incontenibile sete di vita e di esperienze, fatto che crea un’empatia indispensabile anche al di là dello schermo, ad un pubblico universale che entra in sala magari convinto di assistere ad una vicenda appartenente ormai ad un passato remoto. Al contrario Pride riesce a cancellare con un secco colpo di spugna trent’anni di una storia che pare accaduta ieri, se non proprio oggi, di fronte ai nostri occhi un po’ increduli e un po’ umidi di commozione. Perché ci mette di fronte all’inequivocabile verità secondo cui – a prescindere da omosessualità e fatiche del lavoro in miniera – le difficoltà e le sofferenze più dure sono in qualche modo superabili solo attraverso la condivisione con l’altro, ancora meglio se in partenza molto lontano non solo fisicamente.
Pride ad ogni modo non nega assolutamente che ci sia una lunga strada da percorrere. Non ricorre a facili scorciatoie. Il primo passo, prima di cimentarsi nell’impresa di protendersi verso l’altro, è sempre obbligatoriamente quello di trovare la propria identità. La storia del giovane Joe – una delle persone centrali del film – ci dice che mentire a se stessi porta solo delle conseguenze che prima o poi vengono a galla. Tante sono le paure da vincere nella vita: la prima è sempre quella di scoprire chi siamo veramente. In questo senso, parafrasando il titolo di un bel film very british di diciotto anni orsono, bisognerebbe realmente ringraziare quell’autentico spauracchio del proletariato rispondente al nome di Margaret Thatcher: se per (de)merito della sua disdicevole azione politica si sono scoperti o riscoperti valori come comprensione e autentica fratellanza. Come cantava Fabrizio De Andrè “dal letame nascono i fiori”; e film come Pride ci insegnano a non aver timore di guardare oltre l’orizzonte. Trent’anni orsono al pari di oggi.
Daniele De Angelis