All Night Long
Due differenti solitudini che si notano, si sfiorano, si parlano, si amano.
É possibile rendere, ancora una volta, nuovo, originale, degno di essere raccontato al cinema, l’incontro amoroso? A questa domanda prova a rispondere il regista Gabe Klinger con Porto, sua opera prima di finzione.
Che venga dal documentario, Klinger, d’altronde non si stenta a crederlo guardando come fotografa, sin dalla sequenza di apertura, la Porto dei suoi due amanti, esaltandola in una sinfonia in super8 intima ed evocativa. Ma è tutto il film ad apparire come una lunga serie di istantanee, un puzzle visivo e sgranato che insegue i formati in 8 e 16mm mentre il tempo, tutt’attorno, collassa su se stesso e il resoconto dell’incontro di Jake e Mati si colora dell’indeterminatezza delle passioni.
É come un giallo sentimentale Porto, un abile e intelligente gioco di intrecci e trovate di sceneggiatura che scopre, passo dopo passo, le sue carte, rivelando i retroscena, i silenzi, i gesti e le parole dietro alla passione (apparentemente) passeggera di una notte.
Il resto è in mano ai due innamorati, a Jake (un convincente e afflitto Anton Yelchin, alla sua ultima interpretazione), giovane americano solo e taciturno che vive alla giornata, e a Mati (Lucie Lucas), apparentemente solare e bellissima ricercatrice francese, in lotta con la depressione e con una relazione che non la soddisfa.
Sarà proprio con quella singola notte, sezionata e analizzata in ogni suo dettaglio e anfratto – come i luoghi di una città da (ri)scoprire – che si confronteranno per il resto della loro vita i due protagonisti, colorando di un’inevitabile malinconia ogni momento di quell’incontro.
Non sorprende affatto che dietro all’operazione di Porto ci sia lo zampino di Jim Jarmusch. Il film di Klinger ha infatti tutti i sintomi dell’attitudine indie e dell’influenza estetica dell’autore di Stranger Than Paradise, nonché quel gusto e quelle pose autocompiaciute e autoreferenziali che, troppo spesso, hanno caratterizzato i lavori di molti dei suoi seguaci.
Eppure c’è qualcosa, in Porto, che va al di là del manierismo, dei facili intellettualismi (le citazioni di Proust si sprecano) o del prodotto immediatamente catalogabile (e vendibile); qualcosa che fa trasparire la sincerità di uno sguardo attento e personale, capace di andare al di là dei limiti di scrittura e persino del rischio, sempre dietro l’angolo, di rendere quei personaggi figure bidimensionali e stereotipate.
C’è in quest’opera prima, soprattutto, l’abilità di dare forma a un sentimento, di filtrare, attraverso i colori della malinconia, accompagnandole a una rapsodia jazz e sperimentale, quelle immagini viste migliaia di volte, facendole rivivere come nuove. Ancora una volta.
Mattia Caruso