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Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII

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VOTO: 9

La leggenda rivive sul grande schermo

Ultimamente, vedi le virtuose “retrospettive a puntate” dedicate a grandi Maestri del cinema nipponico come Akira Kurosawa e Shin’ya Tsukamoto, anche la sala si sta orientando con decisione verso il passato, permettendoci di riscoprire e far scoprire alle nuove generazioni i cosiddetti “classici”, andati magari incontro in anni recenti a opportune operazioni di restauro. Del resto la Storia del Cinema è una miniera pressoché inesauribile cui attingere, all’occorrenza.
Una settimana fa abbiamo pertanto accolto con estremo favore l’invito all’anteprima stampa romana di Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII, versione restaurata e rimasterizzata in 4K e Dolby Atmos del leggendario documentario musicale (o “rockumentary”, come si usa dire oggi) firmato da Adrian Maben e datato 1972, che sta uscendo ora nelle sale per restarci dal 24 al 30 aprile. Il film documenta un’esibizione senza pubblico dei Pink Floyd tenutasi nell’ottobre del 1971 presso l’antico anfiteatro romano di Pompei, ossia in una cornice da brividi che sfida i secoli, anzi, i millenni.

Potervi assistere sul grande schermo è una gioia per gli occhi, per le orecchie e per la mente. Musica di qualità immensa riempie la sala. Ma è la stessa forma sperimentale, a tratti psichedelica, data al documentario, a risultare assai seducente. Se infatti le tradizionali interviste mettono in luce l’ironia, gli accenni di critica sociale e la lucidità non comune, facilmente attribuibili agli allora molto giovani membri della band britannica (qualità rimasta inalterata e semmai cresciuta a livelli esponenziali nel “superstite” Roger Waters, ritratto all’epoca accanto all’iconico gong e ancora oggi in prima fila quando si tratta di battaglie realmente importanti, lo sa bene il pubblico di C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando), l’aspetto visuale del film è un tripudio di ipnotici split screen, ritmi sincopati, riprese vertiginose e idee di montaggio che finiscono per dialogare con ogni nota e con ogni pietra dell’antico sito archeologico.
Ci vogliamo però appoggiare esplicitamente, il motivo lo spiegheremo poco più avanti, a quanto scrisse lo storico, preparatissimo collega di Cinemasessanta, Vincenzo Esposito, nel volume “Rock Around the Screen: Storie di cinema e musica pop” curato assieme a Diego Del Pozzo. Eccone un piccolo estratto: “Pink Floyd : Live at Pompeii (Pink Floyd a Pompei, 1972) – realizzato dal regista Adrian Maben, e da lui stesso definito un film <<anti Woodstock >> – inizia con un totale dall’alto dell’antico anfiteatro; seguito da uno zoom a stringere che svela lentamente i musicisti avvolti da un imponente impianto di amplificazione, come se i suoni dovessero raggiungere orecchie distanti anni luce. L’incipit di Echoes Part I fende il silenzio del Tempo con gli acuti di un sonar filtrato da un effetto Leslie. La carrellata ottica si avvicina alla band rispettando l’asse segnato dal drum-kit di Nick Mason – sulle cui due grancasse sono dipinte altrettante raggiere solari – e si arresta soltanto davanti all’incedere dei primi versi cantati da David Gilmour e Rick Wright: <<Lassù l’albatros rimane sospeso nell’aria / E nelle profondità al di sotto delle onde / Nei labirinti delle caverne di corallo / L’eco di un tempo lontano, giunge sinuoso attraverso la sabbia>>. Il passato ritorna a vivere, ma in un presente in cui la Luna è scomparsa e anche il Sole si è eclissato. La nuova sfida utopistica lanciata dai Floyd in Set the Controls for the Heart of the Sun, di impostare i comandi dell’astronave per raggiungere il cuore del disco solare, quindi, serve a poco: giacché, questa volta, la meta non è raggiungibile, neanche con la forza della fantascienza. L’Era dell’Acquario è finita, tra le polveri degli scavi archeologici. Da quella Dust of Time risorgerà il rock degli anni Settanta: narcisista, cerebrale, glamorous, senza più pretese di voler cambiare il mondo (se non quello interiore). Il film termina con Echoes Part II, che incornicia l’opera in una perfetta struttura circolare, e ci porta al cospetto di un ultimo uomo rimasto sulla Terra: forse lo stesso che avevamo incontrato all’inizio del nostro percorso. Un disperato in cerca di calore, che per farsi coraggio ripete: <<Non c’è nessuno che mi canti ninna-nanne / Nessuno che mi faccia chiudere gli occhi / E allora spalanco le finestre, e striscio verso di te attraversando il cielo>>.
Di nuovo in viaggio? Forse, dalla Terra… al lato oscuro della Luna.”

Ispirati sia da questa lettura che da una vecchia foto di Vincenzo Esposito accanto ad Adrian Maben, abbiamo rintracciato il saggista nostro amico e collega, per proporgli un sintetico “botta e risposta” che ci aiuti a inquadrare ancora meglio l’affascinante progetto cinematografico e la sua eredità.

D: Sappiamo che nel 2016 hai incontrato di persona Adrian Maben, il regista di Pink Floyd: Live at Pompeii…. cosa ti è rimasto più impresso, a livello umano e professionale, di questo incontro?
Vincenzo Esposito: Ho incontrato in forma privata Adrian Maben nell’estate del 2016 in occasione della mostra fotografica da lui stesso curata, dal titolo Pink Floyd, Live at Pompeii Underground. Abbiamo trascorso un po’ di tempo insieme all’interno degli scavi di Pompei, dove Maben stava ancora curando alcuni aspetti dell’esposizione, pochi giorni prima dell’inaugurazione. Eravamo a ridosso del concerto del 2016 di David Gilmour nell’anfiteatro. Maben fu molto gentile a concedermi la possibilità di chiacchierare con lui, mentre continuava a lavorare e ad andare su e giù nelle gallerie sotterranee e laterali dell’anfiteatro; luoghi che furono aperti al pubblico solo dopo il famoso concerto dei Floyd del 1971 e che nel 2016 ospitarono la mostra di Maben. Ebbi l’impressione di una persona estremamente scrupolosa, attenta ai dettagli. Credo che lo spirito “archeologico” di quella mostra fosse quello di recuperare anche le memorie private di un evento diventato leggendario; tirare fuori tutto ciò che era rimasto “underground” fino a quel momento. Maben aveva aperto la mostra anche a tutti coloro che nella città di Pompei avevano conservato ricordi personali, foto, aneddoti di quel famoso concerto a porte chiuse. Con me e Maben, infatti, c’era anche Alfredo Cataldo, uno dei “ragazzi del ’71”. Questi erano dei giovani pompeiani che, durante i giorni delle riprese si intrufolavano abusivamente negli scavi archeologici per spiare i Pink Floyd che suonavano dal vivo. Aben mi disse che lui e i Pink Floyd avevano sempre pensato che quel concerto fosse davvero a porte chiuse, blindato. Invece non era così. Tra le tante cose interessanti che vidi in quella mostra, che era ancora in allestimento, c’era anche uno spazio dedicato ai ricordi di quei ragazzi del 71, con delle foto d’epoca scattate da Cataldo. Trasportato dalla forza dell’immaginazione, Maben mi apparve come uno di quei poeti del romanticismo inglese, bruciati dal fuoco delle loro stesse passioni. Quel luogo magico appartiene a Maben, lo ha “perseguitato” per tutta la vita.

D: Riguardo al suo documentario, invece, cos’è che a tuo avviso ha contribuito di più a farlo entrare nella leggenda, dal punto di vista del linguaggio cinematografico e dell’evento in sé?
Vincenzo Esposito: Credo che quel film sia diventato leggendario innanzitutto per la location. Fu un’intuizione geniale venire a Pompei. E poi, perché la narrazione di Maben e Floyd andava in una direzione ostinata e contraria rispetto al racconto mainstream del rock di quegli anni: era un concerto a porte chiuse, senza pubblico. Mentre quella stagione di peace and love si contraddistingueva per i megaraduni hippy con folle oceaniche come quello di Woodstock. Non a caso Maben definisce il suo film come un “anti-Woodstock”. Il soggetto del saggio che scrissi è proprio questo.

D: Nel film emerge anche, durante le interviste, il lato più spigoloso, critico, ironico e consapevole dei membri della band. Ciò ci suggerisce una domanda forse scabrosa, potenzialmente scomoda: tra quelli rimasti in vita, c’è ancora qualcuno che incarna bene tale spirito?
Vincenzo Esposito: Per me i Pink Floyd continuano a essere incarnati da Roger Waters, era lui il genio (schizoide) del gruppo. Ha continuato per tutta la vita a girare intorno alla tematica floydiana dominante: il viaggio dentro noi stessi; dare uno spazio e un tempo all’urlo del nostro subconscio. La musica dei Pink Floyd in ultima analisi è centrata su questo. Waters ha colorato questo macrotema generale con suggestioni personali, come quelle legate alla figura paterna mancante (suo padre è morto in guerra, durante lo sbarco alleato ad Anzio, quando Roger aveva meno di un anno di vita), o alla guerra, che ha raccontato in tutti i modi, e ha maledetto in tutti i modi. E infine quella sua inclinazione molto orwelliana per il racconto distopico, che ritroviamo tanto negli album dell’ultimo periodo Floyd da Animals fino a The Final Cut, sia in alcuni lavori solisti di Waters. Fino al suo ultimo bellissimo album in studio del 2017 Is This the Life We Really Want?
Waters è un gigante. Waters è i Pink Floyd.

Stefano Coccia

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