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Piercing

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VOTO: 7

Matti da legare

Cosa potrebbe accadere se uno scrittore del calibro di Ryû Murakami e un giovane regista indipendente (e coraggioso) come lo statunitense Nicholas Pesce cooperassero al fine di creare un nuovo prodotto cinematografico? Di certo, la cosa risulterebbe appetibile per molti. E, alla fine, il tutto è stato realizzato. O meglio, il cineasta, prendendo come base di partenza il romanzo “Piercing” di Murakami, appunto, ha dato vita alla sua opera seconda (dopo il piccolo gioiellino The Eyes of My Mother, del 2016), l’omonima Piercing, presentata in anteprima alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, all’interno della sezione After Hours.

Tutto si svolge in un’unica notte, all’interno di sole tre location. Reed (Christopher Abbott), diventato padre da poco, è tormentato da un’oscura pulsione: dover fare, a tutti i costi, a pezzi qualcuno. Egli è arrivato al punto di sentire addirittura delle voci che gli intimano di farlo. Una sera, dunque, al fine di dare sfogo ai propri istinti (e con la complicità della moglie), l’uomo affitterà una stanza d’albergo e chiamerà una prostituta, con la scusa di voler vivere un’esperienza di bondage. Sarà a questo punto che arriverà la giovane Jakie (Mia Wasikowska), la quale, tuttavia, non esiterà a stravolgere i piani dell’uomo, riservandogli inaspettate sorprese.
Ciò che, fin dai primi minuti, colpisce immediatamente lo spettatore sono i numerosi rimandi al cinema del passato, realizzati mediante le colonne sonore “prese in prestito” a John Waters, a Ruggero Deodato e, non per ultimo, al grande Dario Argento. E, infatti, questo secondo lavoro di Nicholas Pesce – ironico e autoironico fin dai primi minuti – sembra fin da subito voler ricalcare le orme di Quentin Tarantino (particolarmente esemplari, a tal proposito, i titoli di testa), attingendo a piene mani – come egli stesso fa da sempre – da quanto è stato realizzato in passato e dando vita sì a un sentito omaggio, ma anche a qualcosa di totalmente nuovo e personale. E la cosa, si può dire che – malgrado le non poche imperfezioni – è pienamente riuscita.
Piercing è, di fatto, un piccolo, prezioso lungometraggio, all’interno del quale vediamo due squilibrati in un’avvincente “danza” in cui i ruoli della vittima e del carnefice non fanno che alternarsi dall’inizio alla fine. Senza esclusione di colpi. Se, infatti, inizialmente, il personaggio di Reed si era presentato al pubblico come lo psicopatico di turno – con i suoi istinti omicidi e tutte le sue piccole manie tipiche del disturbo ossessivo-compulsivo – ben presto sarà Jackie a “rubargli la scena”, finendo per pugnalarsi immotivatamente a una gamba con un paio di forbicine per unghie. E questo, ovviamente, è solo l’inizio.
Nicholas Pesce, dal canto suo, è riuscito perfettamente a mettere in scena questo perverso gioco, grazie anche all’utilizzo di location quasi claustrofobiche e che – fatta eccezione per gli esterni, un cui vediamo un’ottima realizzazione di modellini di palazzi dalle altezze vertiginose e tutti uguali l’uno all’altro – si somigliano in modo impressionante, con le loro luci soffuse e l’arredamento con i toni prevalentemente del rosso e del nero.
L’effetto finale è talmente bizzarro, divertente e divertito che si tende anche a sorvolare su sporadiche “cadute di stile” (vedi, ad esempio, la figlia neonata di Reed che, quasi in apertura del lungometraggio, gli intima, con una voce che sta a ricordare quella di un demone, di “uccidere tutti”) e momenti in cui si tende a tirare le cose troppo per le lunghe, dando vita a inevitabili cali di ritmo. Ma, si sa, nel mettere in scena una storia tanto semplice, quanto, allo stesso tempo, complessa, i rischi ci sono eccome. Fortunatamente, Nicholas Pesce ha saputo gestire bene il tutto, rendendo la visione del suo Piercing decisamente piacevole e accattivante. Persino quando il lungometraggio viene proiettato al termine della storica, lunga “notte horror” torinese, quando il sonno si fa sentire prepotente come non mai.

Marina Pavido

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