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Nueva Era

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VOTO: 5

Un artista e il suo mondo

Tra le sezioni più interessanti del Torino Film Festival, vi è indubbiamente l’innovativa e sperimentale Onde, in cui, con uno sguardo panoramico sulla filmografia di tutto il mondo, ci vengono mostrati, di volta in volta, nuovi modi di intendere la Settima Arte e di scoprire nuovi linguaggi. Durante questa trentaseiesima edizione, è stato selezionato – all’interno della suddetta sezione – il lungometraggio Nueva Era, lavoro intimistico e personale dell’artista finlandese Matti Harju, il quale, attraverso una serie di filmati montati in successione senza logica apparente, si racconta e ci racconta il suo modo di fare arte, come egli stesso si rapporta al proprio lavoro e, non per ultima, la sua vita privata.

Al via, dunque, scene di vita quotidiana in cui vediamo l’artista svegliarsi al mattino, parlare – ancora assonnato – al telefono, lavarsi i denti o passare il suo tempo all’interno di un bosco, a fumare insieme a un amico. Nel frattempo, fugaci immagini di quadri (realizzati dallo stesso Harju) stanno a intervallare i suddetti momenti, in cui ci è dato vedere anche la compagna dell’artista e, non per ultime, immagini di paesaggi, ora al tramonto, ora in notturna. Una serie di spezzoni – ognuno a suo modo suggestivo ed evocativo – che, letta nell’insieme (con tanto di tagli di montaggio che dividono in modo netto e parecchio brusco un filmato dall’altro) ci appare come un personalissimo flusso di coscienza, molto sentito dall’autore, ma che tende, per uno spettatore “esterno ai fatti” a restare quasi “estraneo”, estremamente nichilista e ripetitivo fino al punto da far perdere quasi del tutto l’interesse che inizialmente aveva spinto a intraprendere la sua impegnativa visione.
E, di fatto, il problema di un lavoro come Nueva Era è quello di finire inevitabilmente per parlarsi addosso, con una serie di filmati montati con una successione random, senza logica apparente, che tendono – durante i relativamente pochi settanta minuti di durata – a ripetersi fino allo stremo, sfiancando letteralmente anche lo spettatore più motivato e mal celando una certa autoreferenzialità da parte dello stesso Matti Harju, il quale, talmente preso dal volersi a tutti i costi raccontare, ha dimenticato di parlare a chi ha deciso di prestargli attenzione.
Sono casi, questi, in cui, malgrado le buone intenzioni iniziali del voler sperimentare nuovi linguaggi, purtroppo si finisce inevitabilmente per prendere un abbaglio dietro l’altro. A poco, dunque, servono suggestive immagini di paesaggi nordici al tramonto, o all’interno di un fitto bosco: non basta, in casi come questo, la semplice bellezza delle scene presentateci (in questo caso anche montate in modo eccessivamente repentino da non lasciare nemmeno il tempo al pubblico di “affezionarsi” a esse). Ciò che manca è un’anima, un qualcosa che vada oltre il semplice voler mostrare la propria vita. Una mancanza, questa, che ha fatto sì che il presente Nueva Era finisse inevitabilmente per accartocciarsi su sé stesso e per sgonfiarsi come un palloncino, classificandosi come una sorta di “macchia nera” all’interno di una sezione che, solitamente, di belle sorprese ne riserva parecchie.

Marina Pavido

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