Il sole di notte
Quello di Giuseppe Gaudino è – e sembra intenzionato a continuare ad essere – un cinema libero; libero dai compromessi del mercato, libero narrativamente, drammaturgicamente e soprattutto stilisticamente, poiché espressione di un’autorialità, a sua volta figlia di un modo personale di fare e concepire la Settima Arte. Il risultato è un corpus riconoscibile a prima vista, un approccio alla materia che è il riflesso di un cinema di resistenza, che si difende continuamente, in maniera orgogliosa e con coraggio, dagli attacchi, dalle illusorie “opportunità” e dalle facili tentazioni omologanti del cinema contemporaneo. Che si tratti di documentari o produzioni di fiction sulla breve e lunga distanza, il cineasta di Pozzuoli ha coerentemente proseguito, in compagnia dell’inseparabile Isabella Sandri, nella medesima direzione, quella che Catherine Libert e Stefano Canapa hanno provato a riassumere nel loro Les Champs brǔlants del 2010. La riprova, se mai ce ne fosse stato bisogno, ci arriva dalla sua ultima fatica dietro la macchina da presa, quel Per amor vostro che, dalla competizione in quel di Venezia 72, approda nelle sale in cerca di fortuna a partire dal 17 settembre con Officine Ubu. Siamo consapevoli quanto lui, esponente tra i pochi ancora in corsa di una pratica cinetica d’avanguardia radicale e suggestiva, che la distribuzione nel circuito ufficiale per un’opera come questa non sarà un’avventura semplice, ma i consensi raccolti al Lido, accompagnati da altre recensioni favorevoli come la nostra, oltre alla presenza nel cast di interpreti di richiamo che rispondono ai nomi di Valeria Golino, Adriano Giannini e Massimiliano Gallo, possono in qualche modo rendere la strada meno impervia. Ce lo auguriamo di tutto cuore.
Se con il folgorante esordio Giro di lune tra terra e mare, il regista si era addentrato nel corpo, nella storia e nel mito della sua città natale, passando attraverso le vicissitudini di una famiglia di pescatori degli anni Settanta, costretta ad abbandonare il focolaio domestico, poiché collocato in una zona erosa dai lenti fenomeni di bradisismo, per traslocare nei nuovi insediamenti, stavolta si sposta nel ventre di Napoli (dove non c’è spazio per i cumuli di immondizia) per raccontare il crocevia e le difficoltà quotidiane di una donna e dei suoi affetti. Dunque ancora una famiglia al centro del plot, con le gioie e le sofferenze di tutti i giorni ad animarne le dinamiche narrative, con la differenza che da un ritratto corale si passa un’odissea sostenuta quasi interamente da una protagonista femminile che rappresenta il vero e proprio baricentro dello script. Il suo nome è Anna, una donna fragile e forte allo stesso tempo, chiamata, in un delicato passaggio della vita, a rivoluzionare la sua esistenza. Dentro e fuori da lei si sta combattendo una “guerra”, che la porta a misurarsi con i fantasmi del passato e i demoni del presente per provare a mettere le basi per un futuro diverso. È stata una bambina spavalda e coraggiosa, oggi è una donna remissiva e “ignava”, sensibile e fin troppo tollerante, prigioniera dei doveri familiari (le colombe in gabbia sul terrazzo di casa che accarezza in più di un’occasione simboleggiano chiaramente questa condizione), di un marito violento e del rapporto viscerale con i tre figli. Ma è proprio per l’amore che ha nei confronti di quest’ultimi (da qui il titolo) che ha deciso di combattere. Un lavoro stabile e la possibilità di un nuova relazione le danno l’occasione di ritrovare se stessa, di tornare a vivere libera e lontana dai suoi incubi. Il tutto incorniciato da una Napoli d’incanti e di malavita, di amore e di violenza, lontana dai cliché e dagli stereotipi. Una metropoli con le sue innumerevoli contraddizioni, che Gaudino immerge in un bianco e nero luminoso, poco contrastato e non carico, che si fa portatore di speranza all’interno di un dramma umano. Un bianco e nero violato da pennellate di colore nel vero senso della parola, che dalla tavolozza si spostano sullo schermo per diversificare i piani temporali (i flashback di Anna da piccola) oppure per spalancare le porte agli incubi che tormentano la protagonista (la finestra di casa che si affaccia su un mare in tempesta). È anche attraverso la suddetta lotta cromatica che si materializza questa “guerra”.
A caricarsi sulle spalle il film e un personaggio ricco di sfumature, difficilissimo da gestire, una Golino in stato di grazia, ancora alle prese con una madre ribelle dopo Respiro. Gaudino le affida le redini e fa bene. La sua Anna è potentissima. Il regista può così concentrarsi sulla messa in quadro, ancora una volta vulcanica e strabordante, capace di fulminee accelerazioni di ritmo e di soluzioni visive che richiamano alla video-arte, frutto della visionaria e “caotica” creatività che è ormai diventata marchio di fabbrica del cineasta campano. La macchina da presa si getta all’inseguimento della donna fuori e dentro le mura domestiche, la pedina e le sta addosso senza lasciarla mai, restituendone in moltissime occasioni lo sguardo mediante delle soggettive, tanto nei momenti di veglia (le escursioni amorose in compagnia di Michele, l’attore di soap che la corteggia) quanto in quelli onirici (il coro greco nelle scene ambientate nell’autobus allagato).
Di Giro di lune tra terra e mare, anch’esso presentato in concorso alla Mostra di Venezia diciott’anni or sono, ha preservato quasi intatta la veste “selvaggia”, dove la natura e quello che ci circonda è egemone, le tradizioni e le credenze popolari si confondono senza soluzione di continuità con la Storia e con le vicende personali. Ciò che è venuto meno, invece, è la contaminazione, non in termini di linguaggio o di punteggiatura visiva come avrete modo di appurare, ma sul versante della separazione fra la finzione e il reale, la cui linea nella pellicola del 1997 era praticamente inesistente. In Per amor vostro, Gaudino punta tutto sul primo aspetto, appoggiandosi sui personaggi e sulla drammaturgia. Ne viene fuori un’opera ugualmente poetica, puntellata da tocchi di puro lirismo (la sequenza finale sul vulcano), più concreta e attenta alla quadratura del cerchio rispetto all’opera prima, ma emotivamente meno penetrante. Un’opera seconda, questa, che di tanto in tanto sfugge dalle sue mani, che abbonda e satura quando al contrario dovrebbe sottrarre. Non a caso si avvertono delle lungaggini e dei giri di troppo che si materializzano nei quindici minuti di troppo che si contano sulla timeline a conti fatti.
Francesco Del Grosso