L’apprendista stregone
Decisamente in controtendenza, rispetto alle più recenti produzioni targate Marvel, questa trasposizione di Doctor Strange, il personaggio creato su carta dal mitico Steve Ditko nella prima metà degli anni sessanta. Non più la leggerezza di un happening come accaduto da ultimo in Captain America: Civil War; al contrario un film interamente costruito sul protagonista, che cerca di raccontarne i cambiamenti all’interno della descrizione di una parabola esistenziale. Bene o male? In teoria bene, a prodotto visionato maluccio. In primo luogo perché è proprio la presunta drammatizzazione del dottor Stephen Strange a scricchiolare sin da subito. Il film diretto da Scott Derrickson, infatti, non raggiunge alcuna “epica” della mutazione da arrogante chirurgo – il quale a seguito di un incidente stradale perde l’uso delle preziose mani – a sensazionale mistico deputato a salvare l’umanità dai pericoli derivanti da nemici che popolano una sorta di universo parallelo: il personaggio resta fondamentalmente lontano dall’empatia del pubblico poiché antipatico era e tale resta. Non si percepisce alcuna sofferenza nel cambiamento; solo un gratuito profluvio di effetti speciali tanto barocchi quanto un po’ pacchiani che appaiono presi di peso dal magnifico Inception (2010) di Christopher Nolan – il continuo cambiamento del tempo e della realtà con relativa scomposizione architettonica delle location tra Londra, New York e Hong Kong – oppure i lunghi ed estenuanti duelli tra “corpi astrali” – cioè spirituali, mentre i corpi materiali giacciono inermi da qualche altra parte – che ricordano sin troppo da vicino quelli ad esempio mostrati da Peter Jackson nel visionario (quello sì!) Sospesi nel tempo (1996). E per l’appunto, uno dei principali limiti della versione cinematografica di Doctor Strange risiede proprio in una strisciante mancanza di originalità: un’eccessiva visionarietà di seconda mano ne penalizza fortemente la riuscita. Purtroppo anche la sceneggiatura, oltre alla menzionata prevedibilità della messa in scena, non aiuta affatto, riducendo la seconda parte – quella in cui Strange prende gradatamente possesso del suo nuovo ruolo – in un susseguirsi continuo tra azione ripetitiva e spiegoni abbastanza stucchevoli, che peraltro contribuiscono solo a creare ulteriore confusione e noia tra gli spettatori. Ogni opposizione tra razionalità e misticismo viene, anziché un minimo approfondita, dato che il cinema non si è ancora trasformato definitivamente in un videogioco, usata come mero pretesto di passaggio tra una sequenza più o meno spettacolare e l’altra. Così anche le numerose parentesi umoristiche – in tutta evidenza inserite per sollevare l’insieme dalla sua insostenibile pesantezza congenita – finiscono più per irritare che far sorridere.
Peccato soprattutto per un cast addirittura lussuoso, che vede in testa l’ottimo Benedict Cumberbatch provare in tutti i modi a fornire una tridimensionalità a Stephen Strange. Nonostante un 3D sovranamente superfluo, l’impresa però si rivela delle più disperate. Allo stesso modo restano di pura maniera le interpretazioni degli (altrove) eccellenti Chiwetel Ejiofor, Rachel McAdams e una magnetica Tilda Swinton in seducente versione calva, nella parte di colei che istruisce Strange alle arti mistiche. Delittuoso è poi l’aver sprecato un villain d’eccezione come Mads Mikkelsen, un Kaecilius impegnato a conquistare il nostro pianeta per conto delle forze del male ma per l’occasione ridotto a mascherina digrignante le cui azioni rimangono sostanzialmente misteriose e di scarso impatto emotivo sul pubblico.
Non resta dunque che sperare nella futura interazione di Strange – ed i consueti, gustosi, “post scriptum” nei titoli di coda sembrano ovviamente andare in questa direzione – con gli altri supereroi del variegato universo Marvel. Questo Doctor Strange a lui interamente dedicato possiede solo la granitica ridondanza di un cinema a grado di spettacolarità assai limitato, piuttosto che l’impulso a fantasticarvi sopra così tipico della lettura fumettistica. Del resto le ciambelle non possono sempre riuscire con il buco al centro…
Daniele De Angelis