Il bene vostro
Come tantissimi colleghi di ieri e di oggi, connazionali e non, Wim Wenders ha nell’arco della sua carriera alternato produzioni sulla lunga e sulla breve distanza, spaziando liberamente tra storie e generi diversi. Ciò a contribuito a dare forma e sostanza a una filmografia variegata ed eterogenea che lo ha portato anche a misurarsi in più di un’occasione con il “cinema del reale” nelle sue diverse sfumature, passando dalla docu-fiction in odore di mockumentary al documentario musicale o alla biografia.
Volendoci concentrare sulla suddetta categoria è nel filone ritrattistico che il cineasta tedesco ha dato il maggiore contributo alla causa, dando vita a una personale galleria nella quale hanno e stanno trovando via via posto figure a lui affini e storicamente rilevanti: da Nicholas Ray (Lampi sull’acqua – Nick’s Movie) a Yasujirō Ozu (Tokyo-Ga), da Yohji Yamamoto (Appunti di viaggio su moda e città) a Pina Bausch (Pina), da Skip James (L’anima di un uomo) a Sebastião Salgado (Il sale della terra). Ora in quella galleria è entrato a fare parte anche il ritratto di Jorge Mario Bergoglio, al secolo Papa Francesco, il 266° Pontefice della Chiesa Cattolica, il primo proveniente dalle Americhe e dall’emisfero sud del mondo, il primo gesuita in qualità di arcivescovo di Roma, ma prima di tutto il primo ad aver scelto il nome di Francesco dopo San Francesco D’Assisi. Una serie di buoni motivi, questi, oltre al fatto che si tratta di uno dei Pontefici più amati e popolari della storia che, sommati alla spiritualità che trasuda dal suo cinema, avranno spinto Wenders a realizzare Papa Francesco – Un uomo di parola, nelle sale nostrane a partire dal 4 ottobre (quale data migliore se non il giorno del calendario dedicato San Francesco D’Assisi) con Universal Pictures dopo la presentazione a Cannes 2018.
Nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa, il regista tedesco asseconda (e non può fare altrimenti) tutte le aspettative che si possono riversare su un progetto simile per quanto riguarda l’approccio alla materia e al soggetto in questione. Ma nel farlo sceglie comunque una strada ben precisa che lo ha portato a non rinchiudere e circoscrivere il tutto tra le quattro mura e i confini geografici della Città del Vaticano, al contrario lo riduce a un quartier generale dove tornare di volta in volta per ascoltare le parole del protagonista, raccolte in una serie di sessioni di interviste frontali realizzate in diverse location della Santa Sede. Qui il Papa ha l’occasione di rispondere a una sinfonia di domande in tutte le lingue del mondo su temi spinosi e argomenti a lui cari (dall’importanza della famiglia a quella del lavoro, dal rispetto dell’ambiente alla lotta contro la fame nel pianeta, dalla condanna della pedofilia in ambito ecclesiastico alle guerre e all’accoglienza), in un dialogo intimo e diretto con il regista, la cinepresa e in primis con lo spettatore. In tal senso, lo sguardo costantemente rivolto dal Papa in macchina è la cartina tornasole del modo in cui l’autore ha voluto impostare e costruire la timeline.
Il film si basa visivamente e narrativamente sull’interazione diretta dei fedeli con lui, in quello che vuole essere prima di tutto un viaggio personale in compagnia di Papa Francesco più che un documentario biografico sulla sua figura. Infatti, salvo alcune brevi parentesi disseminate qua e la nella timeline in cui è Bergoglio stesso a raccontarci episodi e trascorsi del suo passato, la pellicola ci accompagna nel corso dei suoi numerosi viaggi, con immagini che lo riprendono mentre parla alle Nazioni Unite o partecipa alle commemorazioni a Ground Zero e presso lo Yad Vashem, mentre parla ai carcerati presso i penitenziari e ai rifugiati nei campi affacciati sul Mediterraneo. Lo vediamo viaggiare in Terra Santa così come in Africa, Sud America e Asia. Ciò fa di Papa Francesco – Un uomo di parola una sorta di road-movie spirituale e anche terreno, capace persino di emozionare quando ci conduce nei luoghi del disagio e della sofferenza. Cinematograficamente parlando, a parte le immagini rubate da Gianfranco Pannone nel suo L’esercito più piccolo del mondo o indirettamente in Chiamatemi Francesco con il quale Daniele Luchetti ha raccontato in chiave fiction l’esistenza di Bergoglio dalla sua giovinezza a Buenos Aires alla nomina a Papa nel 2013, attraversando il periodo travagliato in Argentina, della dittatura di Jorge Rafael Videla, non eravamo mai arrivati così vicino al Santo Padre. Proprio questa vicinanza lo rende un documento prezioso, laddove lo spettatore credente o no può trovare conforto e rifugiarsi tutte quelle volte che necessita di un rifornimento di buoni e sani propositi.
Il pedinamento fa in modo che il prodotto in sé non risulti mai statico o ostico ma di immediata e piacevole fruizione, anche se ciclicamente l’accumulo di argomentazioni simili rende il tutto un po’ ridondante. La narrazione segue alla lettera una scaletta in cui a ciascun tema l’autore dedica un capitolo e una tappa del viaggio, accompagnando gli assolo del protagonista con i resoconti del tour del Papa da una parte all’altra del pianeta. Per il resto, da segnalare le avvolgenti musiche e i pregevoli time-lapse di apertura su Assisi e sulla Basilica di San Francesco, decisamente meno e superflue le ricostruzioni di fiction in bianco e nero posticce che riavvolgono le lancette dell’orologio per mostrare episodi della vita del Santo dal quale il Papa odierno ha preso in prestito il nome. Una soluzione visiva, questa, che risulta un mero riempitivo, al quale Wenders ha già fatto ricorso in passato e con risultati senza dubbio più riusciti ne I fratelli Skladanowsky o nel suo frammento di Cattedrali della cultura dedicato alla filarmonica di Berlino, dove vediamo l’entità ectoplasmatica dell’architetto Hans Scharoun girovagare tra le topografie dell’edificio da lui progettato ed edificato tra il 1960 e il 1963. Questo per dire che tornare sui propri passi non sempre aiuta.
Francesco Del Grosso