Angeli custodi
Tra le numerose Nazioni o Città Stato che hanno preso parte alla 72esima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, salta subito all’occhio l’esordiente di turno, quello che non ti aspetti, ossia il Vaticano che, al fianco d’Italia e Svizzera, fa la sua prima comparsa Fuori Concorso in quel del Lido con L’esercito più piccolo del mondo. L’esercito in questione è quello composto dal Corpo delle Guardie Svizzere che dal lontano 1506, per volontà di Papa Giulio II, hanno come compito principale di vigilare costantemente sulla sicurezza del Sommo Pontefice in carica e sulla sua residenza. Di anni ne sono trascorsi oltre cinquecento dalla fondazione e le suddette competenze sono rimaste invariate, nonostante il susseguirsi delle stagioni, dei periodi bui e delle “scelte divine” più o meno longeve che hanno riguardato i “vertici” della Chiesa. Sorprende a tal riguardo che, tranne prodotti destinati al piccolo schermo di natura espressamente informativa, didattica e divulgativa, nessuno abbia mai pensato di raccontare il “mondo” e la missione delle Guardie Svizzere con uno sguardo decisamente più cinematografico. In tal senso, l’apertura mentale successiva all’elezione di Papa Francesco ha finito con lo spalancare porte secolarmente sigillate, permettendo a una folata di aria nuova di fluire. Di conseguenza, le “difese immunitarie” e le barricate erette a difesa si sono andate via via abbassando, quanto basta per consentire all’esterno di entrare e farsi un’idea su un mondo che in molti pensano di conoscere, ma che in realtà conoscono solo in minima parte.
A penetrare in quel microcosmo con l’obiettivo indiscreto che da sempre caratterizza il suo modo di fare e concepire il “Cinema del Reale”, ma anche l’approccio alla materia umana e topografica, troviamo Gianfranco Pannone, documentarista fra i più apprezzati, versatili e attivi, nel panorama nostrano. La sua ultima fatica dietro la macchina da presa, dopo il pluri-premiato Sul vulcano, ci accompagna per mano proprio alla scoperta del Corpo della Guardia Svizzera Pontificia. Per farlo avrebbe potuto scivolare sul velluto scegliendo una via più semplice, per non dire scontata, magari incentrando il plot su un discorso più generico che avrebbe offerto alla platea l’ennesima panoramica sommaria sull’ambiente, sulle persone che lo vivono, sulle leggi che lo regolano, sui compiti richiesti, sulla scala gerarchica che decide il quando, il perché e il percome delle singole azioni. Sempre in questa direzione avrebbe potuto argomentare e mostrare passando attraverso figure di richiamo, pescate ai piani alti e alle quali spettano ruoli chiave e compiti di comando, ma per fortuna le scelte drammaturgiche del regista partenopeo sono state altre.
Stanno qui i meriti del regista e della sua opera, che come avrete modo di vedere parte volutamente dal “basso”, restituendo un punto di vista inedito e a nostro avviso più significativo. Quello firmato da Pannone non è il classico dietro le quinte, molto di più del solito tour esplorativo, ma un diario scritto giorno dopo da coloro che, in silenzio e con dedizione, come veri e propri “angeli custodi”, sono chiamati a salvaguardare sull’incolumità del Papa dentro e fuori dalle “mura amiche”. Si entra così dal portone principale per transitare quotidianamente negli spazi conosciuti e sconosciuti attraverso gli occhi di un gruppo di reclute, in particolare quelli di Leo e René, che dai loro paesi d’origine in Svizzera approdano nella Città del Vaticano per entrare a far parte dello storico Corpo militare. Tale scelta è per quanto ci riguarda azzeccatissima, assolutamente in linea e coerente con il percorso portato avanti dal cineasta napoletano sino a questo momento. Quello proposto è uno sguardo intimo dal di dentro, che rigetta come da intenzione dello stesso regista “la facile retorica della rappresentazione”. Trattasi di “uno sguardo laico” come ci tiene a precisare nelle note di regia, capace di restituire sullo schermo la verità delle cose, dei gesti, dei pensieri e delle azioni, nonostante la presenza dello spettro del politicamente corretto che giocoforza deve aver aleggiato sulla genesi del progetto e sul suo sviluppo, sia in termini di forma che per i contenuti. Ciononostante Pannone sembra aver goduto di un certa libertà di movimento, necessaria per entrare in empatia con i protagonisti del documentario, dei quali riesce fare sue le esperienze per poi restituire un ritratto corale.
La vicinanza a un grande maestro del documentario come Vittorio De Seta gli ha insegnato a fare a meno delle interviste, a pedinare le persone negli ambienti e a cogliere da queste la naturalezza nelle parole, nei silenzi e nelle riflessioni fatte a voce alta. E sulla base di tale lezione, la medesima che sembrano aver assimilato coppie di documentaristi di nuova generazione come Parenti-D’Anolfi o i gemelli De Serio, che Pannone ha costruito l’architettura del suo nuovo film. Quello proposto ne L’esercito più piccolo del mondo è uno sguardo di tipo antropologico che porta lo spettatore alla scoperta di un habitat fatto di disciplina, ordine, precisione e ritualità. Sulla scia e con le distanze del caso di un Wiseman d’annata, si assiste a una sorta di basic training che trasferisce al fruitore i meccanismi perfettamente oleati che ci sono dietro un apparato militare che veste uniforme secolari e non usa armi da fuoco, ma lunghe alabarde. Un addestramento lento e graduale che si consuma tra mense, sartorie, palestre, dormitori, cortili e chiese, che si trascina nella vastità di una Piazza San Pietro sempre stracolma di fedeli. Il tutto attraverso le splendide immagine, geometricamente costruite dal direttore dalla fotografia Tarek Ben Abdallah, accompagnate dalle musiche avvolgenti firmate da un bravissimo Stefano Caprioli.
Francesco Del Grosso