Chamami Jenisch
A gennaio inoltrato si verifica, ormai da qualche anno, un curioso fenomeno. Da un lato distributori, esercenti ed istituzioni politico-culturali varie, nell’approssimarsi del cosiddetto Giorno della Memoria, si mobilitano per portare in sala alcune delle più recenti opere cinematografiche incentrate sull’Olocausto o su altri aspetti della barbarie naziste. D’altro canto non mancano, tra gli esponenti più snob e sospettosi della stessa critica, i casi di coloro i quali, presa coscienza della tendenza in atto, sono portati a schifare, con ragioni a volte aprioristiche, qualunque film riconducibile a tale filone. Ci sembra ovvio che pure in simili valutazioni andrebbe adottato un maggiore equilibrio. Ed è per questo che vi invitiamo comunque a vedere Nebbia in agosto, lungometraggio tedesco non immune da qualche svolazzo retorico, ma che per il resto sa mettere in scena un versante poco noto della macchina di morte hitleriana col giusto grado di coinvolgimento emotivo e una impalcatura narrativa quantomeno discreta.
Al regista Kai Wessell, decisamente poco noto da noi ma con una notevole esperienza in Germania tanto nell’ambito cinematografico che in campo televisivo, è spettato il compito di tradurre in immagini una vicenda a suo modo emblematica, quella di Ernst Lossa: ragazzino finito a 13 anni negli ingranaggi dello sterminio nazista, sia per la sua appartenenza all’etnia Jenisch (zingari originari proprio dell’area germanica), sia per la quasi conseguente attribuzione a categorie di malati mentali e di presunti “asociali” da parte di un Terzo Reich desideroso di purificare la razza, anche attraverso queste puntigliose, abnormi e disumane misure. Difatti lo sfortunato ragazzo, sulla cui breve e tormentata esistenza gli storici possiedono diverso materiale, dopo la permanenza datata 1940 nel riformatorio giovanile di Dachau venne indirizzato nel 1942 all’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, ovvero a pochi chilometri dalla sua filiale, la clinica della morte nel villaggio bavarese di Irsee, dove verrà poi eliminato con due punture letali.
Un primo merito di Nebbia in agosto è perciò la chiarezza con cui si fa luce sugli aspetti più drammatici del famigerato “T4”, il decreto del 1939 con cui Hitler propiziò il ricorso su larga scala all’eutanasia per tutte quelle categorie, tra cui pazienti affetti da malattie mentali o disabilità fisiche, che secondo il suo perverso disegno non avrebbero potuto contribuire al benessere della “comunità nazionale”. Durante tutta la Seconda Guerra Mondiale il piano venne portato sistematicamente avanti, seppur in diverse fasi e con differenti metodologie.
Ma il film di Kai Wessell è anche un racconto di formazione giovanile coinvolgente e ben concepito nelle sue linee essenziali. Una nutrita galleria di personaggi, tra pazienti dell’ospedale psichiatrico e personale medico complice, ma in misura non omogenea e con qualche lodevole caso di ostruzionismo vero i colleghi più fanatici, della progressiva eliminazione dei malati ritenuti non recuperabili, accompagna lo spettatore in una convincente rappresentazione di quanto l’orrore possa diventare sistemico, diffuso, accettato passivamente, continuando però esso a confrontarsi con sussulti di dignità e gesti di grande umanità capaci di scuotere nel profondo quell’ordine deviato. Lo stesso immaginario infantile di Ernst e dei suoi piccoli amici viene esplorato in tutte le sue dinamiche, quelle più cupe come anche quelle intrise di un vitalismo residuale. Peccato solo per l’eccessiva enfasi registica mostrata in alcuni frangenti, soprattutto verso la fine, il che paradossalmente depaupera un po’ l’impatto generale del film, pur non annullandone l’utilità e la presa presso un pubblico sensibile all’argomento.
Stefano Coccia