Inferno e Paradiso
Non dovrebbe certo sorprendere che un’opera a tematica LGBTQ+ sottolinei le differenze tra la sessualità reale e quella “arcobaleno”. Che poi riesca a farlo in modo efficace è tutto un altro discorso. A centrare in pieno il bersaglio, stavolta, è National Anthem (Inno nazionale) dell’esordiente regista statunitense Luke Gilford; il quale racconta, in coloratissimo stile semi-fiabesco alla Sean Baker, le avventure del giovane Dylan alla scoperta della vita.
Dylan (un ottimo Charlie Plummer, già visto in Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott e nella sottostimata serie televisiva Looking for Alaska) conduce una vita grama in una dimenticata località del New Mexico. A poco più di vent’anni deve mantenere una madre alcolizzata e un fratellino più piccolo, mentre del padre si sono perse le tracce. Si trova così costretto ad accettare qualsiasi tipo di lavoro manuale. Un bel giorno, diremmo anzi bellissimo, mentre si trova radunato con altri operai aspettando proposte, un uomo richiede alcuni lavoratori per la manutenzione di un ranch poco lontano, dal significativo nome di “House of splendor”. Dylan, abbastanza riluttante, accetta. Si tratterà, per lui, di un’autentica epifania. Sia esistenziale che sessuale. Una di quelle esperienze formative il cui peso orienterà una vita intera.
National Anthem, presentato al Festival MIX 2024, non è solo un film che mette in scena una sessualità libera e priva di condizionamenti. Gilford riesce ad andare ben oltre una dimensione puramente carnale parlando anche della profondità di un’amicizia, nonché della bellezza di conoscere altri esseri umani dotati di quel concetto astratto chiamato sensibilità. Non che sia prerogativa unica di omosessuali ed affini, ma certamente uno spirito compassionevole è molto più facile trovarlo in determinati ambienti piuttosto che in altri. Nell’opera d’esordio di Gilford omosessualità, bisessualità, transizioni e travestitismo rappresentano solo la cornice di un quadro che punta all’essenza di rapporti personali completi a trecentosessanta gradi. Possedendo esattamente le medesime possibilità, forse oltre, di un rapporto etero non tossico.
Non a caso il protagonista si sente sì attratto dalla sensuale Sky; ma, allargando il discorso, si innamora compiutamente di tutta la popolazione del ranch, capace di offrire lui quella sorta di protezione mai provata nella quotidianità dell’esistenza prima di allora. Certo – e questo è un altro merito da riconoscere a National Anthem – il flusso della vita continua a scorrere senza possibilità di fermarlo. Tutti i personaggi compiono delle scelte che saranno necessarie e molto dolorose. E quando l’ascolto finale dell’inno stelle e strisce sembra condurre ad un ritorno alla “normalità istituzionale” dell’intera vicenda ci sbaglia grossolanamente. Ogni esistenza, in primi quella di Dylan, è cambiata e maturata irrimediabilmente.
Nonostante qualche compiacimento formale e alcune divagazioni dal sapore superfluo National Anthem è un’opera da visione obbligata soprattutto nei confronti di alcune persone diciamo “pubbliche”, che ogni giorno dimostrano di possedere la verità assoluta su fatti assolutamente soggettivi mentre in realtà non conoscono nulla nemmeno a proposito di loro stessi.
Daniele De Angelis