(Non) mi ritorni in mente
Dopo svariati e apprezzati cortometraggi (uno su tutti The Manila Lover, presentato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2019, vincitore di numerosi premi internazionali), Johanna Pyykkö era attesa alla prova del nove nel lungometraggio per confermare quanto di buono mostrato nelle produzioni sulla breve distanza. La regista e sceneggiatrice svedese-finlandese ha risposto con My Wonderful Stranger, un’opera prima davvero interessante e assolutamente coerente e conforme con quello che era il suo percorso precedente in termini di contenuti, tematiche, stile e modus operandi, se non fosse per le fragilità strutturali e la perdita graduale di lucidità alla quale si assiste nella seconda parte.
E prima ancora di quello che la pellicola ha portato sullo schermo, presentato tra gli altri nel concorso della 25esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, sono le dichiarazioni della stessa autrice a confermalo e a suonare alle orecchie dello spettatore di turno come una chiara lettera d’intenti: «Le mie storie non parlano di me, io mi sento piuttosto un’osservatrice della società. Ho pensato alle donne più pericolose e manipolatrici che ho incontrato nella mia vita, affascinata com’ero dalla loro mitomania, e mi sono chiesta quali fossero i sogni, gli obiettivi e le fragilità di una giovane donna come la mia protagonista, che costruisce il personaggio di Julian quasi fosse una sceneggiatrice o una regista, con un approccio “meta-cinematografico”». Il tutto ha poi preso forma e sostanza con la complicità in fase di scrittura di Jørgen Færøy Flasnes, concretizzandosi nel disegno del personaggio principale e nel suo arco narrativo. Si chiama Ebba ed è una diciottenne solitaria che lavora nel porto di Oslo come addetta alle pulizie. Una notte, incontra un uomo affascinante disteso sul selciato e con un trauma cranico. Quando scopre che ha perso la memoria, la ragazza lo inganna facendogli credere che siano amanti e costruendo così un mondo fondato sulle bugie. A poco a poco, scopre però il suo passato e tutto si capovolge.
Il ribaltamento di cui sopra, che coincide con la scoperta della verità, rappresenta di fatto il punto di rottura e di non ritorno nella timeline e di conseguenza il tallone d’Achille che funge da miccia che innesca una reazione a catena che porta le fondamenta drammaturgiche a mostrare delle crepe sempre più vistose e insanabili. Ciò che inizialmente era sembrato coinvolgente e teso al punto giusto, con un mood oscuro e malato che si insinua lentamente nel racconto e nella psicologia di chi lo anima per poi deflagrare sullo schermo nel già citato tourning-point, perde inspiegabilmente di credibilità e di capacità performativa come le interpretazioni di Camilla Godø Krohn e Radoslav Vladimirov A quel punto la tensione latente crolla e con essa la base solida sulla quale la scrittura e la messa in quadro avrebbero potuto continuare a fare leva. A risentirne sono i personaggi, a cominciare da quelli principali, le cui azioni diventano persino inverosimili o quantomeno poco realistiche. I cavilli e gli escamotage disseminati lungo la timeline per far tornare i conti e giustificare i passaggi più critici e criptici del racconto, compreso il coup-de-théâtre piazzato in zona Cesarini, non sono sufficienti a sanare le crepe e risollevare le sorti di un un film che lascia l’amaro in bocca per ciò che sarebbe potuto essere e purtroppo non è stato.
Francesco Del Grosso