Quotidiana malvagità
“La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive.” – Hannah Arendt, “La banalità del male”.
Se pensiamo ad un saggio come questo sopracitato, ci rendiamo conto quanto, tristemente – al giorno d’oggi più che mai – le tesi portate avanti dalla Arendt siano decisamente attuali. Ed è proprio partendo da tali tesi che il controverso cineasta tedesco Philip Gröning ha dato vita al disturbante My Brother’s Name Is Robert and He Is an Idiot, presentato in Concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino.
Regista a stento conosciuto nel nostro paese, Gröning ha avuto modo di accrescere la sua visibilità in Italia soltanto nel 2013, anno in cui ha presentato il suo Die Frau des Polizisten alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, dove, per l’occasione, ha vinto il Premio Speciale della Giuria. Per la personalissima messa in scena adottata – che prevede lunghi silenzi, numerosi piani sequenza e dettagli ravvicinatissimi – oltre che per la durata stessa, se da un lato il sopracitato film è stato osannato da pubblico e critica, dall’altro ha suscitato reazioni decisamente negative in un elevato numero di spettatori. Ad ogni modo, indubbiamente un nome come quello di Gröning è riuscito a farsi ricordare. Al punto che questo suo My Brother’s Name Is Robert and He Is an Idiot è stato fin da subito uno dei titoli che maggiormente ha incuriosito i numerosi accreditati presenti a Berlino.
La storia messa in scena è quella di due fratelli gemelli: Elena e Robert. Essi vivono da soli presso un distributore di benzina situato in aperta campagna. Durante un caldo pomeriggio d’estate, i due si siedono sull’erba e Robert decide di aiutare sua sorella a preparare l’imminente esame di maturità. E così, discorrendo del senso dell’uomo sulla terra e del valore del tempo – citando più e più volte il filosofo Martin Heidegger – i due ragazzi sono soliti trascorrere le loro giornate. È, tuttavia, il forte nichilismo della loro quotidianità far nascere in loro il desiderio di compiere dei gesti estremi ed incredibilmente violenti.
Seguendo inizialmente lo schema di Die Frau des Polizisten, anche con questo suo lungometraggio – di chiara ispirazione godardiana – Gröning sceglie un andamento narrativo particolarmente contemplativo, dove il lento trascorrere delle giornate ben viene reso da infiniti momenti di relax, di gioco, di studio e di (non troppo) affettuosi screzi. Il fatto che l’autore, esteticamente parlando, sappia il fatto suo, è cosa risaputa. Il problema di questo suo lavoro, tuttavia, è che, a differenza dei suoi precedenti, pur prevedendo un crescendo di tensione e potentissimi scossoni emotivi, risulta a tratti involontariamente frammentario, oltre che ricco di elementi che male si amalgamano al resto della messa in scena. La banalità del male qui raccontata – che tira in ballo, tra l’altro, il prevedibile incesto, oltre che minacce, omicidi e sparatorie – prende spunto sì da un’idea molto forte, ma finisce inesorabilmente per soccombere alla necessità dell’autore di estremizzare ulteriormente la sua già di per sé marcata autorialità, finendo inevitabilmente per risultare eccessivamente autoreferenziale.
A quanto pare, questo è il destino che accomuna molti autori che, una volta ottenuti i meritati riconoscimenti – si “preoccupano” eccessivamente di dover fare sempre meglio, finendo per tirarsi inevitabilmente la zappa sui piedi. Basti pensare, giusto per fare un esempio, a Season of the Devil del cineasta filippino Lav Diaz, anch’esso presentato alla 68° Berlinale. Persino un autore come lui è riuscito a prendere un abbaglio.
Peccato, dunque, per quanto riguarda questo lungometraggio di Gröning. Che complessivamente si tratti di un buon prodotto, non vi sono dubbi. Il punto è che, da un nome come il suo, ci si sarebbe aspettato qualcosa di molto, ma molto meglio. Probabilmente, in casi del genere, un “banale” ritorno alle origini potrebbe rappresentare la soluzione migliore.
Marina Pavido