L’Umanità, questa sconosciuta
Il Cinema, si sa, esattamente come tutte le arti, ha bisogno di scoprire e di sperimentare, di quando in quando, nuovi linguaggi. Ben venga, dunque, quando vi sono cineasti – molti dei quali soprattutto giovani – che tentano il nuovo, che provano a raccontare il mondo attraverso innovative messe in scena. Se, però, da un lato, il voler sperimentare rappresenta comunque un’occasione di crescita, dall’altro è anche un’arma a doppio taglio, dal momento che da singolari messe in scena possono nascere i prodotti più improbabili. Questo, ad esempio, è ciò che è successo durante la 68° edizione del Festival di Berlino, dove è stato conferito un discussissimo Orso d’Oro al lungometraggio Touch Me Not (per l’uscita italiana Ognuno ha diritto ad amare), della giovane regista rumena Adina Pintilie, premiata per l’occasione anche con l’Orso d’Argento alla Miglior Opera Prima. A giudicare dai premi, si potrebbe addirittura gridare al miracolo. E invece, purtroppo, malgrado l’interessante idea da cui prende spunto l’intero lungometraggio e malgrado, questo dobbiamo riconoscerlo, un discreto risultato da un punto di vista prettamente fotografico, questo lavoro della Pintilie presenta, in realtà, non poche problematiche.
A metà strada tra il documentario e la fiction, Touch Me Not indaga i problemi di un’affascinante cinquantenne, la quale non riesce a stabilire alcun contatto fisico con persone dell’altro sesso. Tra discussioni con attempati transessuali e rapporti “platonici” con giovani gigolò, la donna cercherà di superare il proprio blocco emotivo. Parallelamente, vediamo una serie di incontri tra persone diversamente abili, le quali esplorano i loro corpi e definiscono il loro rapporto con il sesso confrontandosi tra di loro.
Ad una prima, sommaria lettura della sinossi, la cosa sembrerebbe interessante eccome. Ma allora, perché questa opera prima della Pintilie ha disturbato così tanto sia pubblico che critica? Il problema, di fatto, risiede “banalmente” alla base del tutto, ossia riguarda principalmente lo sguardo della stessa regista ed il suo modo di porsi nei confronti di ciò che sta raccontando. Con qualche sporadica “comparsata” da dietro a davanti l’obiettivo della macchina da presa, la giovane cineasta tratta un argomento tanto complesso e delicato banalizzandolo con ogni possibile cliché sul corpo umano e non disdegnando neanche elementi di facile presa come il tema del sesso nella vita dei disabili, dimostrandosi a tratti gratuita e quasi voyeurista. Non dice nulla di nuovo, questo suo lungometraggio. Al termine della visione non ci si sente né arricchiti, né tantomeno si ha la percezione di conoscere meglio noi stessi e l’umanità che ci circonda. La protagonista del documentario, peraltro attrice di professione, non riesce a comunicare quasi nulla allo spettatore, ma, al contrario, risulta quasi sterile, nel suo “non evolversi”, “non cambiare” praticamente mai (se non, appunto, in modo drastico e poco convincente immediatamente prima del finale), fino ad un telefonato epilogo durante il quale a tutti i numerosi clichés presenti nell’intero lavoro, va a sommarsi l’ennesimo luogo comune finale che vede la protagonista danzare davanti alla macchina da presa, finalmente libera di essere sé stessa.
Se, dunque, in un poco riuscito lavoro come questo della Pintilie riuscissimo a leggere una certa ingenuità di fondo, oltre ad una prevedibile inesperienza con il mezzo cinematografico stesso, magari riusciremmo ad essere molto più indulgenti con esso. Il problema principale, però, è proprio quello sguardo ruffiano e quasi ipocrita che proprio non riesce a farci andare giù una vittoria tanto inaspettata quanto tristemente immeritata, soprattutto se si pensa ai numerosi, interessanti titoli presenti in concorso durante questa ricchissima 68° Berlinale.
Marina Pavido