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Human, Space, Time and Human

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VOTO: 6

…E tutto si ripete…

Di gran lunga tra i più noti ed amati cineasti sudcoreani, Kim Ki-duk ha avuto modo di farsi conoscere ed apprezzare in tutto il mondo ormai circa vent’anni fa, grazie alla potente estetica dei suoi lungometraggi (non dimentichiamo che il regista ha a suo tempo studiato pittura in quel di Parigi), oltre che alle stesse storie messe in scena, dove veniva lasciato ampio spazio alla fantasia, riuscendo a toccare, allo stesso tempo, temi importanti e non sempre facili da “digerire”. Come talvolta accade, però, anche i migliori perdono colpi. E nel caso di Kim Ki-duk, è stata colpa di un incidente avvenuto tempo fa su di un set, a seguito del quale un’attrice ha rischiato di perdere la vita. Alla fine nessuno si è fatto male, fortunatamente, eppure il regista è entrando in profonda crisi, cosa che ha inevitabilmente cambiato anche il suo modo di fare cinema. Tale specifico momento viene fedelmente raccontato in Arirang (2011), documentario decisamente sottovalutato e considerato da molti quasi una sorta di canto del cigno della filmografia del celebre cineasta. Eppure, di lungometraggi decisamente interessanti realizzati successivamente, ce n’è eccome. Che, tuttavia, la qualità del suo cinema sia andata via via calando, però, ormai è quasi un dato di fatto. Quasi. Se, infatti, il regista sembrava aver toccato il fondo con One on One (2014), pare sia riuscito ad alzare, anche se di poco, l’asticella con alcuni suoi lavori successivi, quali The Net (2016) o il recente Human, Space, Time and Human, presentato in anteprima, all’interno della sezione Panorama Special, alla 68° edizione del Festival di Berlino.

Chi ha avuto modo di conoscere ed amare il Kim Ki-duk di un tempo, di certo avrà modo di ripensare, per quanto riguarda l’ambientazione di questo suo lavoro, al bellissimo L’arco (2005). eppure, in questo caso, ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso (sia semanticamente che esteticamente parlando). È in questa occasione, infatti, che vediamo, su di una nave, un elevato numero di passeggeri, ognuno di diversa estrazione sociale: vi sono alcune prostitute, una coppia di sposini, un anziano misterioso, un gruppo di gangster e, infine, un noto senatore che viaggia insieme a suo figlio. In poche parole, ce n’è davvero per tutti i gusti. Durante la prima notte in viaggio, ne accadono di tutti i colori: alcune ragazze, tra cui la sposina, vengono violentate, un uomo viene ucciso ed il senatore finisce per trovarsi coinvolto in gravissimi crimini. l’indomani mattina, tuttavia, i passeggeri avranno modo di notare con stupore che la nave si è sollevata dalle acque e naviga in cielo, isolata, pertanto, da qualsiasi forma di civiltà. Consapevoli di trovarsi in una situazione d’emergenza, i viaggiatori dovranno dividersi e razionare le scorte di cibo. Al senatore, che seguirà i consigli di un pericoloso criminale, il compito di riorganizzare il tutto. Ogni cattiva gestione delle risorse, tuttavia, avrà pesanti conseguenze su ognuno di loro.
Allegoria del potere ed anche della religione, questo lavoro di Kim Ki-duk parte senz’altro da uno spunto assai interessante, seppur già ampiamente sfruttato (basti pensare, addirittura, al recente Mother! di Darren Aronofsky). Da un cineasta come lui, tuttavia, siamo sempre pronti ad aspettarci grandi cose. Eppure, come già successo da qualche anno a questa parte, anche in questo caso le nostre aspettative sono state in parte deluse. Al di là, infatti, dell’estetica poco curata (contrariamente ai primi film dell’autore), Human, Space, Time and Human finisce irrimediabilmente per parlarsi addosso, dando vita – esclusivamente a livello di scrittura – ad una serie di clichés e banalità tipici di quando si vuol trattare temi del genere. Ed ecco che anche la narrazione stessa finisce per diventare sempre più sconnessa, sempre più debole, al punto che la circolarità stessa (come dal titolo si può ben intuire) del lungometraggio non fa che diventare una vera e propria forzatura. A differenza di un altro titolo ad impronta circolare come Primavera, Estate, Autunno, Inverno..e ancora Primavera (2003), considerato da molti il vero capolavoro di Kim Ki-duk.
In luce di quanto già detto, dunque, in che modo un titolo come Human, Space, Time and Human può essere considerato? Qual è il suo ruolo all’interno della filmografia del cineasta coreano? Alcuni suoi detrattori e non, probabilmente, lo considereranno un modo di combattere la depressione contro cui il regista lotta fin da prima di Arirang. In questo caso, il suo cinema sarebbe qualcosa di estremamente intimo e personale, oltre che un vero e proprio strumento salvifico. Cosa, questa, assai probabile. In tal caso, dal momento che, in fin dei conti, è impossibile non voler bene ad un autore come Kim Ki-duk, non possiamo che difenderlo a spada tratta. Malgrado il suo cinema non riesca più ad arrivare a noi come ha sempre fatto. Malgrado non sia più il cinema di Kim Ki-duk.

Marina Pavido

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