Prequel riuscito benché si tratti di una storia molto convenzionale
Nella savana il re leone Simba (Marco Mengoni) annuncia al suo popolo l’allargamento della propria famiglia, un altro passo nel “cerchio nella vita”. Si reca quindi nel profondo della jungla per trascorrere del tempo con la compagna Nala (Elisa), lasciando la loro cucciola Kiara in compagnia degli amici Timon (Edoardo Leo) e Pumbaa (Stefano Fresi) che, però, non sembrano riuscire a tranquillizzare molto la piccola. Per fortuna, nelle caverne, c’è anche l’anziano mandrillo Rafiki (Toni Garrani, sostituito da Edoardo Stoppacciaro nelle scene in cui la scimmia è più giovane), che è un po’ lo sciamano della corte. Egli, per riportare la situazione sotto controllo, comincia dunque a raccontare l’affascinante storia del nonno di Kiara, il padre di Simba: Mufasa. Come tutti sappiamo dopo aver visto l’originale Re Leone, film d’animazione del 1994 campione d’incassi (o il suo remake in “live action” del 2019), egli venne ucciso ucciso dal malvagio fratello Scar, costringendo così Simba ad una lotta estenuante per vendicare il genitore e riprendersi il trono che gli spettava di diritto.
Ma poco altro sappiamo del passato del nobile antenato: ecco allora che Rafiki si appresta a narrare finalmente l’intera vicenda, rendendo Kiara orgogliosa di appartenere alla sua famiglia.
Il vero protagonista di Mufasa: Il Re Leone pertanto è lui, Mufasa (Luca Marinelli), che scopriamo non aver avuto vita facile: molto piccolo è stato travolto da una piena cui è sopravvissuto per miracolo, per essere poi salvato da un altro leoncino, Taka (Alberto Boubakar Malanchino), e adottato dalla madre di questo, Eshe. Purtroppo il padre di Taka, il re Obasi, non aveva alcuna simpatia per il nuovo arrivato, che quindi venne costretto a crescere tra le femmine del branco, una umiliazione che però gli permise di imparare le raffinate tecniche di caccia delle leonesse.
Quando uno spietato gruppo di leoni, guidati dal possente Kiros (Dario Oppido), invase il regno di Obasi massacrando tutti, Mufasa e Taka si videro costretti ad una fuga disperata, incontrando sul tragitto proprio Rafiki e la futura regina Sarabi (Elodie).
Il gruppo, così male assortito, dovette a tutti i costi trovare il modo di collaborare, sfuggire a Kiros e ai suoi inarrestabili sgherri, e trovare un luogo in cui rifondare una casa per vivere in pace.
Ci prepariamo dunque ad un racconto avvincente.
Dedicato alla memoria dello scomparso attore James Earl Jones, che prestò la voce all’originale Mufasa negli anni Novanta, questa pellicola del regista Barry Jankins (suo il sorprendente Moonlight trionfatore agli Oscar del 2016), si affida alla sceneggiatura del veterano Jeff Nathanson, che già aveva firmato il precedente The Lion King nel 2019. Malgrado ciò, si potrebbe pensare ad un tentativo disperato della Disney di raschiare il fondo del barile, visti i numerosi insuccessi degli ultimi anni, continuando ad insistere sulla formula del “prequel” e puntando sullo sfruttamento di titoli che hanno fatto storia. E forse tutto sommato è così. Eppure bisogna dire che il risultato è sorprendentemente buono, nonostante desideri raccontare qualcosa che sulla carta nessuno aveva mai chiesto di sapere. Tecnicamente si tratta di un’opera ineccepibile: i movimenti degli animali, tutti, appaiono naturali e realistici, esattamente come è di notevole realismo lo scenario che li circonda. Ci si dimentica a tratti che si sta osservando una serie di personaggi creati dalla computer grafica, rimanendo ammaliati per esempio dai dettagli degli occhi o dalle pellicce smosse dal vento. La storia è godibile, sebbene molto prevedibile in ognuno dei suoi passaggi: amicizia, onore, tenacia e tradimenti sono infatti ingredienti che, amalgamati a dovere, offrono sempre spunti narrativi interessanti. Non pochi i passaggi che alludono alla spietata violenza della savana e, anche se non vediamo nessuno davvero sbranato sullo schermo, si capisce molto bene dove questa è la fine che spetta a qualcuno più sfortunato. Lo scontro fatale fra Mufasa e Kiros da questo punto di vista è particolarmente intenso, spettacolare e brutale e non è un male, considerato che stiamo assistendo ad una lotta fra leoni disposti a tutto pur di eliminare l’avversario. Insomma, sangue non se ne vede (anche quando c’è chi si dichiara morso o ferito) ma Disney stavolta non ha voluto del tutto edulcorare quello che si vede sullo schermo, come succedeva in passato in un periodo meno ipocrita, si veda ad esempio il vibrante finale di Red e Toby (1981).
Fa capolino nella storia qualche elemento che lascia perplessi, come un pizzico di femminismo facile (i maschi si godono ingiustamente il potere dormendo l’intero il giorno) e la scelta di rappresentare il malvagio branco nemico come composto interamente da leoni bianchi, non a caso nel cast originale l’unico doppiatore tra i felini a non essere di colore è quello di Kiros, Mads Mikkelsen. Tuttavia i veri difetti del film, a nostro avviso, riguardano le canzoni che punteggiano la storia, stavolta non proprio indimenticabili, e un doppiaggio italiano sostanzialmente mediocre. Ormai da molti anni la Disney affida le voci dei suoi personaggi non a doppiatori professionisti ma a personalità dello spettacolo o peggio ancora della canzone che, pur impegnandosi, dietro al leggio non riescono a brillare adeguatamente. Essere dei bravi attori, come lo sono Marinelli o Malanchino, non significa affatto essere altrettanto adeguati al momento di affrontare un’arte come quella del doppiaggio. E la differenza, quando a parlare sono i veri professionisti del settore, purtroppo si nota eccome.
Rimane comunque uno spettacolo ben fatto, visivamente ottimo, in più parti anche appassionante e senza dubbio riuscirà ad avvincere non solo il pubblico più giovane.
Massimo Brigandì