Siamo umani
Qualcuno, all’epoca, lo avrà già visto, anche perché in Italia è stato pubblicato un prezioso dvd dalla Dolmen, nonostante la mancata uscita in sala. Molti lo vedranno ora, grazie alla distribuzione nei cinema nostrani per merito di Academy Two – sulla scia degli inesauribili allori mietuti da Parasite (2019) – a ben diciassette anni dalla sua realizzazione. E, vi garantiamo, sarà uno shock cinematografico. Di quelli intensi nonché assolutamente impossibili da dimenticare. Bong Joon Ho (classe 1969) aveva nel 2003 trentaquattro anni. Ma già dimostrava, all’opera seconda, un lucidità inimitabile nella messa in scena. Memorie di un assassino (più conosciuto con il titolo internazionale di Memories of Murder) è tutt’altro che un film di genere. O se lo è ne scardina ben presto gli angusti limiti. C’è un serial killer, il quale aggredisce sessualmente e uccide giovani donne nella periferia rurale della Sud Corea. Ci sono dei poliziotti di campagna, evidentemente impreparati e rudi di comportamento, che indagano. Arriva un giovane ispettore da Seul, a tentare di ricondurre l’indagine sui binari della logica e non della casualità. Le false piste ed i “perfetti colpevoli” si sprecano senza esito, mentre le uccisioni continuano ad affastellarsi. Durante notti di pioggia. E le lancette dell’orologio intanto scorrono implacabili…
Bong Joon Ho non vuole sedurre il pubblico attraverso la violenza, nella fattispecie raccontata solo verbalmente. Si concentra invece sull’imperfezione dell’essere umano, incentrata su un istinto in grado di condurre fino al vicolo cieco dell’ossessione. Memorie di un assassino ha la grandezza di un trattato filosofico, pur traducendo per immagini un autentico universo cinematografico. Componenti tecniche al di sopra della perfezione. Ogni inquadratura, anche quella che appare di pura transizione narrativa, è finalizzata a sottolineare lo scorrere inesorabile del tempo, con la morte, in senso sia fisico che simbolico, in costante percezione di avvicinamento. Il canaletto di scolo dove viene rinvenuto il primo cadavere femminile. I campi bruciati dal sole o resi viscidi dalla pioggia che fanno teatro agli altri ritrovamenti. Le stagioni che si alternano. La galleria ferroviaria, con tanto di treno in passaggio, che fa da sfondo alla sequenza clou nel prefinale del film, quella in cui la frustrazione generale arriverà al punto di non ritorno. L’epilogo assieme poetico e beffardo, in cui la dimensione di disperazione raggiunge la sua massima e definitiva connotazione. Tutto è ormai alle spalle. Accaduto. Irrimediabilmente. Come in Parasite i ruoli di vittime e carnefici si confondono sino a rendersi tutt’uno, irriconoscibili in un gioco che mai è volgare esibizione di stile, ma sempre autopsia profonda e spietata sui limiti del genere umano. Dove, a prescindere dalla lontananza geografica, ci si specchia, si affonda in essa, si nutre lo stesso dolore in totale empatia. Anche accompagnati da un amaro sorriso, perché il confine tra tragedia e farsa e notoriamente labile. E l’ironia può persino acuire la sofferenza, se ben utilizzata.
L’autore sudcoreano si prende i suoi tempi narrativi, li dilata oltremisura fin quasi al limite dell’implosione. Virtuosisticamente. Per questo il film, soprattutto a posteriori, può essere tranquillamente definito seminale. Con tutti gli annessi e connessi che tale definizione comporta. Zodiac, grandioso film girato nel 2007 da David Fincher, ne è un fulgido esempio. La terza stagione del celebratissimo serial televisivo True Detective anche. Rivisitazioni su una via già percorsa in passato da Bong Joon Ho. Forse anche per queste ragioni Memorie di un assassino potrebbe lasciare una sensazione di déjà vu. Ma sarebbe una falsa impressione. Perché è esattamente da lì che nasce tutto, che un sottogenere fiorisce fino a divenire un filone a se stante. Tipico dei grandissimi registi, verrebbe da affermare. Senza nessuna possibilità di smentita.
Daniele De Angelis