Le veneri di Sète
Seguito di Mektoub, My Love: Canto Uno, secondo capitolo di un’ideale trilogia autobiografica sulla giovinezza del regista Abdellatif Kechiche, presentato in Concorso a Cannes 2019. Il cinema del regista, fin dai suoi primi lavori, è sempre stato un cinema della realtà, sociale della comunità franco-tunisina, delle periferie francesi. Un cinema che ha sempre funzionato sulla spontaneità, la naturalezza, la vivacità dei dialoghi, la genuinità di attori presi dalla strada. Fa eccezione il lungometraggio Venere nera, film storico di ambientazione ottocentesca dove l’umanità dolente del regista si incarna nella figura di una piccola donna, appartenente all’etnia degli ottentotti, sfruttata per le sue peculiari caratteristiche anatomiche. La progenitrice dei personaggi del regista aveva delle natiche abnormemente sviluppate proprio come nelle veneri scolpite nel Paleolitico superiore e nel Neolitico, simbolo di fertilità. Sono nuove veneri le ragazze di Sète, la cittadina francese crocevia di traffici mediterranei, porto di collegamento tra Francia e Magreb, dove è ambientato il film. Il cinema di Kechiche è un cinema di corpi, fotografati, accarezzati dalla m.d.p. sulla spiaggia, nella discoteca. Corpi femminili che conservano quei tratti di abbondanza, di leggera cellulite che li porta a eccedere i canoni di bellezza longilinea ai limiti dell’anoressia imposti dalla società dello spettacolo. Le donne di Kechiche, al contrario, sono portatrici di carnalità, anche legata alla cultura del cibo. Si pensi alla scena, già lunga, della danza del ventre di Cous cous, film pure girato, ma parzialmente, a Sète, che compensa l’assenza dei grani dell’alimento magrebino.
Il regista mette ancora una volta in scena l’energia giovanile, la carica sessuale dell’adolescenza, collegandola alla sua storia personale. Mektoub, My Love: Intermezzo dilata all’inverosimile gli amori sulla spiaggia, gli sbaciucchiamenti, il cospargersi il corpo reciprocamente di crema solare, i vestiti succinti, le forme generose, i giochi di promiscuità in discoteca, gli amplessi consumati in bagno. La narrazione rarefatta, la sfilza estenuante di esibizioni di corpi, sono un brindisi che il regista celebra con il pubblico, all’amore, al piacere dei sensi nella nostalgia di gioventù, all’amicizia e alla vita, al mektoub, la parola araba che sta a indicare il proprio destino. Nell’abbandonarsi al piacere dei sensi è vietata la fretta e il film non deve essere contenuto, ma librarsi in un piacere che sembra non aver fine. Come i ragazzi della banlieu di La schivata realizzano un loro allestimento teatrale povero di Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux, così i giovani di Sète degli anni Novanta leggono sulla spiaggia raccolte dei miti filosofici, come la platonica caverna. Da lontano si odono echi di guerra passata da poco e non ancora archiviata, la guerra del Golfo, che aveva contrapposto l’occidente ricco a una parte del mondo arabo. Si interrogano sulla propria vita, sul proprio futuro, sul proprio mektoub, i ragazzi del film. Su ipotetici matrimoni. E disquisiscono ovviamente di culi, delle loro varie forme e di quelle preferibili. E una ragazza vuole abortire scappando a Parigi perché non lo si venga a sapere. Sono i giochi dell’amore e del caso di Abdellatif Kechiche. Siamo lontanissimi dallo sguardo moralista di un Larry Clark.
L’uomo è l’unica specie che ha bisogno d’amore per riprodursi, sostengono in definitiva i ragazzi nei loro discorsi. E torniamo all’evoluzione, al biologo ottocentesco che vedeva nei genitali della venere nera un dettaglio che ne faceva l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia. Così i genitali della ragazza che Kechiche non può non mostrare, nella scena del rapporto sessuale consumato in bagno, ci portano alle origini biologiche della nostra vita, alla sessualità ancestrale e all’animalità che non possiamo sopprimere, ma compensare con gli strumenti culturali.
Giampiero Raganelli