Buon sangue non mente
Forse introdurre l’opera seconda di Jim Loach ricordando cotanto padre non è gesto particolarmente delicato, nei confronti del generoso rampollo. Anche perché nel regista inglese, classe ’69, si percepisce la volontà di trovare una strada propria. D’altro canto, non si possono certo negare i proficui punti di contatto tra la poetica del grande Ken Loach e quella di un figlio che pare averne ereditato, ed è senz’altro una fortuna, almeno due doti: la scioltezza narrativa e una marcata visione etica. Se il lungometraggio d’esordio di Jim datato 2011, Oranges and Sunshine, esibiva con le sue storie di assistenti sociali e di welfare in rapida dissoluzione un legame più diretto col cinema del battagliero papà, è proprio nel più recente Measure of a Man (2016) che un simile retaggio ha cominciato a brillare di luce propria, regalando forti emozioni. Già, perché non si deve mai dimenticare che Ken Loach è anche il regista di film come Il mio amico Eric (2009) e La parte degli angeli (2012). Da questo versante apparentemente più disimpegnato dell’opera paterna sembrerebbe che Jim Loach abbia ripreso la giocosa e ammiccante caratterizzazione dei personaggi, quella “leggerezza” di fondo che, per quanto faccia a pugni con la stazza non trascurabile del giovane protagonista, è anche qui sinonimo più di un felice appeal narrativo che di elementi tratteggiati in modo futile e superficiale.
Presentato durante la tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sempre ricca vetrina di Alice nella Città, Measure of a Man racconta la classica estate indimenticabile cui va incontro il giovanissimo Bobby Marks, adolescente problematico per via del rapporto non risolto col proprio corpo, inequivocabilmente grasso, come anche per dinamiche famigliari a lui non sempre favorevoli. Vista e considerata l’ambientazione tipicamente americana di tale racconto cinematografico, collocato in un 1976 che sforna a ripetizione impulsi contraddittori, le prevedibili disavventure al lago del giovane protagonista potrebbero ricalcare pedissequamente i più consolidati stereotipi del teen movie stelle e strisce. E invece no. Pur muovendosi in un territorio dell’immaginario facilmente decifrabile dallo spettatore, Jim Loach ha il grosso merito di caricare di senso il rapporto spesso difficoltoso di Bobby Marks con il mondo esterno, dai genitori in lite tra loro ai pericolosissimi bulli locali che lo perseguitano, dall’affetto per la ragazza conosciuta anni prima in vacanza che fatica a valicare i confini di una pur sentita amicizia fino a quel lavoretto estivo spuntato fuori all’improvviso, che riserverà non poche sorprese. Già, perché pure a livello attoriale il confronto tra un titano come Donald Sutherland, burbero anziano che dà lavoro ai ragazzi del posto con un’aria (e un giardino) da “gigante egoista” ma è poi pronto ad aprirsi coi più meritevoli, ed il giovane e promettente Blake Cooper (già visto all’opera in Maze Runner), regala perle di saggezza che aiutano ad inquadrare meglio, anche sotto il profilo etico, questo delizioso racconto di formazione.
Stefano Coccia