Ritratto di un cineasta
Lido di Venezia. Correva (forse) l’anno 2006. Ci si avviava, sbadigliando e smoccolando per le poche ore di sonno dovute ai ritmi infernali della kermesse lagunare, alla prima proiezione del mattino. Un uomo anziano, vestito di un completo beige e con indosso un cappello chiaro, in compagnia di una donna di mezz’età camminava svelto nonostante l’appoggio di un bastone. Si diresse verso di noi, in direzione contraria. Ci fermammo un attimo, come quando durante un’avventura di birdwatching si scorge una specie rara. Eravamo tutti consapevoli di chi fosse la persona che stavamo ammirando silenziosamente, per non disturbare. Il tardo pomeriggio seguente ero solo. Il sole andava declinando lentamente – il tempo scorre veloce, ma dandoti l’illusoria possibilità di assaporarne gli attimi – oltre il mare. Cominciava a fare fresco e la fatica di un’altra giornata densa iniziava a farsi sentire, al pari della fame dovuta al pranzo saltato. Vicino ma non mescolato alla folla che sciamava c’era ancora Manoel De Oliveira, stavolta da solo. Vestito allo stesso modo della mattina si stava avviando da qualche parte, forse ad una proiezione. Da qualche metro di distanza non riuscì ad evitare un cenno di saluto con la testa, accompagnato ad un accennato sorriso. Mi guardò e ricambiò il saluto, da anziano gentiluomo. Pensai che qualcosa, in quel preciso istante di un qualsiasi crepuscolo di fine estate, ci stava accomunando, oltre l’educazione e la semplice cortesia. Amavamo entrambi il cinema più di qualsiasi altra cosa.
Tanto la sua filmografia è sterminata, tanto noi saremo concisi nel parlarne. Il motivo è presto chiarito: il cinema di Manoel De Oliveira è di una coerenza, di una semplicità, in assoluto disarmanti. Nessuna differenza tra cortometraggi e lungometraggi: puro cinema colto nell’istante stesso del suo fluire. Certo, di un contenuto complesso e insondabile. Ma insieme dotato di uno stile immediatamente riconoscibile, rivestito dell’essenzialità di piani fissi colmi di umanità e sardonica ironia. Manoel De Oliveira, dopo averla metabolizzata a proprio modo, contemplava la materia narrativa che gli si parava davanti al momento delle riprese, rendendola cosa viva, assolutamente nuova e autonoma. Racconti morali in cui bisognava leggere tra le righe, nei quali non si trovava mai un messaggio esplicito da veicolare. Talvolta giocava con il mezzo, con la grazia tipica del bambino innocente. Più spesso dava solamente questa impressione, ed invece faceva maledettamente sul serio. Un unico titolo per tantissimi, preziosa sineddoche, da citare in quest’articolo: lo scioccante, relativamente all’epilogo, Un film parlato (2003). Dopo le sterili chiacchiere di chi non si accorge di cosa sta accadendogli attorno, isolato nel simbolico microcosmo navale, l’esplosione finale. Una quintessenziale lezione di vita e storia, mascherata da poemetto satirico verso una presunta superiorità culturale assai fine a se stessa. Troppo. Quello che il regista portoghese mai è voluto essere. Riuscendoci sempre, ad ogni sequenza girata, ad ogni fotogramma di un cinema da considerare un mondo a parte. Modernissimo in eterno e, soprattutto, di una lungimiranza assolutamente irripetibile.
Alla veneranda età di 106 anni Manoel De Oliveira pare ci abbia lasciato. Concediamo alla vicenda il beneficio del dubbio perché lo vediamo nitidamente camminare di nuovo, appoggiato al proprio, inseparabile, bastone alla ricerca di qualcosa che ancora non è riuscito a trovare. Consapevole che una vita sola non potrà mai bastare, a vedere tutto. Nemmeno usando la lente d’ingrandimento dell’Arte. Per la precisione la settima, chiamata convenzionalmente Cinema.
Daniele De Angelis