Un viaggio chiamato amore
Cosa saresti disposto a fare per amore? Tutto, è la risposta quando si è pazzamente innamorati di qualcuno, anche quando tale sentimento non è corrisposto. Nel caso di Jay Cavendish, il sedicenne protagonista di Slow West, Gran Premio della Giuria all’ultimo Sundance Film Festival, significa fare centinaia di migliaia di km dal Vecchio al Nuovo Continente, attraverso superfici oceaniche e distese immense di terra, sperdute nel bel mezzo del nulla. La sua è la storia di una vera e propria odissea nell’America di frontiera dell’Ottocento alla ricerca della donna che ama, al fianco di un misterioso compagno di viaggio di nome Silas.
Dietro quella che potrebbe sembrare a prima vista come la più classica delle trame si cela, al contrario, la base drammaturgica di un western atipico che per follia, citazionismo strabordante e trovate ricorda Summer Love di Piotr Uklanski, visto alla 63esima Mostra di Venezia. Come il film del regista polacco, anche quello scritto e diretto da John Maclean, presentato alla sesta edizione del Bif&St nella sezione Anteprime Internazionali e prossimamente nelle sale nostrane grazie alla lungimiranza della BIM, gioca con gli stereotipi del suddetto genere, strizzando l’occhio agli spaghetti old style di Leone, Corbucci e Valerii, ma anche a quello surrealista di Jodorowsky. Dunque, riferimenti al western europeo più che a quello a stelle e strisce, anche se il pirotecnico e balistico finale ipercinetico che da solo vale il prezzo del biglietto non può che ricordare il cinema di Sam Peckinpah. Maclean fa suoi gli stereotipi e le figure chiave che da decenni animano il ricco filone, per poi mescolarli senza soluzione di continuità sino a ottenere una miscela esplosiva fatta di sorrisi e azione intrisa di violenza, sangue, proiettili e cadaveri. Approccio alla materia di tarantiniana memoria, dal quale però il promettente cineasta scozzese, qui al suo esordio nel lungometraggio dopo i pluri-premiati corti Pitch Black Heist e Man on a Motorcycle, tende a distaccarsi in parte, sostituendo alla macelleria stilizzata senza freni del più noto collega statunitense una violenza più ragionata e geometrica. Il sangue non manca, anzi; però alla mattanza gratuita di un Django Unchained, il britannico preferisce sparatorie, inseguimenti e duelli meno appariscenti, ma comunque efficaci e di buona fattura. IL tutto condito da battute al fil di cotone, spassosi sketch e momenti di forte tensione (il tentativo di rapina allo spaccio), resi imperdibili da un cast dove spiccano Michael Fassbender, Kodi Smith-McPhee e Caren Pistorius, rispettivamente nei panni di Silas, Jay e Rose
In Slow West si assiste a una rielaborazione personale di elementi già ampiamente decodificati, messi al servizio di un’opera che sa anche come prendersi delle coraggiose libertà e “licenze poetiche”, a cominciare dalla scelta di catapultare gli immancabili e imprescindibili personaggi del genere (pistoleri erranti, killer, pellerossa, cacciatori di taglie, prostitute e temerarie cowgirl) in una varietà di scenari che vanno oltre le rocciose e polverose cornici della frontiera, con Maclean che ricostruisce la sua America in quel della Neo Zelanda. Se non è coraggio questo….
Francesco Del Grosso