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Viviane

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VOTO: 9

Il canto di una donna vi salverà

Un’aula giudiziaria, una corte di rabbini, un ambiente austero. E poi il no di un uomo. E, infine, una donna.
Questa la sequenza su cui si apre il toccante lungometraggio che ha commosso le giurie dei più importanti festival mondiali. Recentemente presentato anche a Cannes all’interno della Quinzaine des Réalisateurs, Viviane narra la difficile e sofferta vicenda di una donna ebrea che tenta di ottenere il divorzio dal proprio marito dopo tre anni di separazione e un lungo matrimonio andato fallito.
La trama si svolge interamente fra le mura del tribunale e, nonostante la fissità delle scenografie e la scarsità di dialoghi, questo piccolo capolavoro ambientato ai giorni nostri, oltre a offrire uno sguardo su una realtà che molti altrimenti ignorerebbero, riesce a regalare due piacevoli ore di distrazione, offrendo dei preziosi spunti di riflessione sia su temi socio-politici, come la concezione della donna all’interno del matrimonio nella società israeliana, sia su temi molto più profondi, come le dinamiche che caratterizzano il rapporto uomo-donna.
In alcuni paesi israeliani, infatti, le leggi che regolano il diritto matrimoniale sono dettate dalla religione che ha come obiettivo principale quello di salvaguardare l’unità della famiglia. Questo, perlomeno, è quanto viene raccontato. Ma, volendo approfondire la tematica, scopriamo che la cosiddetta “salvaguardia delle unioni familiari” va totalmente a discapito della donna, poiché, una volta che ha preso marito, le viene completamente negato il gett, ovvero, il diritto di divorziare: finché il coniuge non offre il suo consenso, ella è destinata a vivere in clandestinità la propria indipendenza; non ha diritto di ricostruirsi una vita al di fuori del matrimonio e i figli che dovesse avere all’interno di relazioni extra-coniugali, pur da separata, avrebbero lo statuto di mamzer, che equivale a quello di bastardi, senza alcuna protezione o riconoscimento giuridico. Vien da pensare che, se l’obiettivo fosse veramente una più o meno discutibile salvaguardia del matrimonio, la stessa difficoltà nell’ottenere  la separazione dovrebbe esistere da ambo i lati. E invece no: quando il divorzio è richiesto dalla controparte maschile, viene concesso senza alcuna difficoltà e senza che venga interpellato il parere della moglie. E la cosiddetta difesa della famiglia passa immediatamente in secondo piano.

Un film che narra una simile realtà e ne mette al corrente il mondo intero è senz’altro un atto di coraggio.
Ma l’indomita coppia di registi israeliani, Ronit Elkabetz e Shlomi Elkabetz (nella vita sorella e fratello), va ben oltre e, probabilmente senza nemmeno rendersene conto, mostra ancor più coraggio nell’andare ad analizzare le dinamiche che caratterizzano il rapporto tra la protagonista e il marito. Sarebbe stato troppo facile mostrare la legittima richiesta di una donna picchiata, maltrattata o violentata dal proprio consorte; sarebbe stato troppo facile mostrare la dialettica, tipicamente hollywoodiana, tra buono e cattivo, tra vittima e carnefice. E invece, a sorpresa, di fronte a una corte di rabbini che chiede quale fosse la condotta dell’uomo, la donna non esita a rispondere con un semplice “impeccabile”. Non esiste, dunque, un valido movente perché si formuli un’istanza di divorzio. “Non mi picchiava, non beveva e né tantomeno usava le mani sui nostri figli”. Qual è dunque la motivazione che la spinge a volersene separare? “Non lo amo più”. Con queste semplici parole, l’attrice apre una porta, varcata la quale non si può tornare indietro, sfoggiando una lodevole capacità di analisi di dinamiche molto più profonde rispetto ai gesti cosiddetti palesi. Quella forma di violenza che priva la donna di qualunque possibilità di ribellarsi, quel tacito agire che la svuota lentamente come un uovo al quale sia stato inciso un buco e a cui man mano venga tolto prima l’albume e poi, lentamente, il tuorlo, fino a rimanere completamente vuoto, rivestito solo del suo guscio color carne. Quell’agire che lentamente la fa diventare complice di una millenaria supremazia di cui l’uomo si è appropriato senza che ve ne fosse alcuna fondatezza.
Con un’esemplare capacità di analisi, Ronit Elkabetz e Shlomi Elkabetz riescono, dunque, a usare la tematica sociale come una semplice cornice che inquadra un’opera opera d’arte.
Grazie alle proprie capacità interpretative, la bella Viviane (interpretata dalla stessa Ronit Elkabetz), attraverso sguardi e movimenti, riesce a penetrare profondamente l’animo dell’ignaro spettatore che, pur carico di aspettative, si troverà piacevolmente sorpreso da una maestria interpretativa che lo coinvolgerà per l’intero dramma, accompagnata da una cura verso alcuni dettagli, apparentemente insignificanti, in grado di raccontare una storia millenaria.
Attraverso una pellicola incentrata prevalentemente sulle immagini, sulle espressioni e sui giochi di inquadrature (non è un caso che nel corso di tutto il film non si vede mai l’occhio del regista, ma solo quello dei personaggi), questo splendido lavoro merita sicuramente l’attenzione del pubblico più variegato.

Costanza Ognibeni

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