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Mademoiselle Paradis

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VOTO: 7

Lo sviluppo di un “senso”

Probabilmente gli appassionati di musica conosceranno bene la storia di Maria Theresia “Resi” Paradis, pianista diciottenne non vedente dotata di un talento fuori dal comune tanto più se si tiene conto della condizione di cecità. Il trauma per lei (e forse ancor più per i famigliari) è forte, poiché la cecità è arrivata da un momento all’altro, in una notte all’età di tre anni. Siamo nella Vienna del 1777 e va subito detto che l’atmosfera del tempo si respira in ogni momento, a partire dai costumi curatissimi (Veronika Albert), fino alle stesse relazioni sociali (d’apparenza nel mondo di corte), comprese le dinamiche tra genitori-figli, i primi, infatti, non ascoltano i desideri della ragazza, ma sono più improntati all’imposizione. Barbara Albert ci presenta subito la nostra protagonista con tutta la sua umanità con la macchina da presa che non vuole staccare sulle sue mani (prima scena), ma solo farci sentire le note e osservare il trasporto dell’artista mentre si lascia andare nel compiere l’unica cosa che sa fare: suonare. Sin dai primi minuti lo spettatore si accorge di come Resi sia anche “esibita” dai propri genitori, i quali, mossi dall’iperprotezione, si rivolgono, come ultima spiaggia, a un discusso “medico dei miracoli”, Franz Anton Mesmer (Devid Striesow), per cui la possibilità di curare con successo la ragazza potrebbe rappresentare una fonte di fama e ricchezza. La storia di Mademoiselle Paradis mette in luce anche come ci si muova per interessi e questo punto sarà fondamentale anche per giustificare alcune reazioni dettate dalla “legge” dell’«homo homini lupus» (non a caso citata nello stesso film).
Il trattamento di Mesmer sembra avere un successo quasi immediato; purtroppo, però, Resi si rende conto che mentre la vista sembra tornarle, il suo talento musicale svanisce. La Albert, complice la straordinaria prova attoriale di Maria Dragus (che già aveva lasciato il segno nei panni della studentessa che viene aggredita in Un padre, una figlia di Cristian Mungiu), radiografa con l’obiettivo tutta la sofferenza di questa donna a causa di chi non la vede e, di conseguenza, non l’ascolta. La seguiamo nel suo rieducarsi a vedere come fa il neonato, nello smarrimento di non saper più muovere come un tempo le dita sui tasti neri e bianchi del piano fino all’acquisizione di una serenità.
Di fronte allo scetticismo di alcuni “sapientoni” nel corso di una dimostrazione, Resi rilancia: «Esiste un’anima però e quella riesce a vederla?». A questa battuta chiave, aggiungiamo un’altra molto eloquente sullo stato d’animo della donna-artista: «Non voglio essere qualcuno che non sa fare niente». Ancora una volta la cineasta austriaca dà prova di come sappia parlare delle donne andandoci affondo senza mai scadere nella banalità, trasmettendo allo spettatore sì un tempo lontano, ma anche come quest’artista abbia tratti in comune con tutti noi. Mademoiselle Paradis (presentato in Selezione Ufficiale alla 12esima edizione della Festa del Cinema di Roma) tratteggia il ritratto di Resi in tutta la sua fragilità, nei momenti di tenacia e soprattutto nella scoperta di se stessa e della libertà, facendola conoscere a chi ne ignorava l’esistenza.

Maria Lucia Tangorra

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