Forget it, it’s Manila
Ancora uno sprofondare nei meandri di Manila, nella melma della capitale filippina, di una società corrotta e desolata, dove vige la più totale anarchia, dove l’unica legge è quella della giungla, quella della sopravvivenza. Un viaggio negli inferi che il regista filippino torna a condurre, dopo film come Lola, Kinatay o Serbis, con una macchina a mano che traduce visivamente il senso di spaesamento, di caos estremo che governa la società filippina, reso anche con un audio in presa diretta che restituisce il brusio continuo di sottofondo della metropoli. Un ambiente urbano disordinato, sporco, quello dei quartieri popolari, sfatto, fatto di vicoli, mercati, grovigli di cavi elettrici. Una melma indistinta che vediamo spesso dall’immagine filtrata e deformata dai vetrini appannati, bagnati dalle gocce di pioggia, da un’automobile. Secondo un’estetica sgranata che pervade tutto il film.
Ma’ Rosa – personaggio che dà il titolo al film, selezionato nel Concorso del Festival di Cannes 2016 – è una signora di mezza età, conduce un piccolo negozio in un quartiere popolare. Nel suo bugigattolo campeggia un poster dell’Ultima cena virato a colori kitsch. Ci viene presentata mentre al supermercato, con uno dei quattro figli, ha difficoltà nell’accettare monete. Il regista pian piano disvelerà l’attività in cui è realmente impegnata, mostrandola, con un gruppo di aiutanti, nell’attività di routine di inserire eroina in pacchetti di sigarette. Arrestata dalla polizia precipita, e noi con lei, in altro golgota: quello delle forze dell’ordine, con il commissariato che riproduce al suo interno la stessa bolgia dell’esterno. Pochi agenti in divisa, la maggior parte in borghese, alcuni a torso nudo, alcuni dormono. Ci sono quelli intenti a scrivere messaggi su Facebook, chi a cantare col karaoke. Il senso del diritto appare decisamente scarso. Tenteranno pure di incastrare Ma’ Rosa e suo marito anche esibendo droga oltre quella effettivamente loro sequestrata. E li costringeranno a rivelare l’identità del loro pusher, che, una volta catturato, picchieranno a sangue senza neanche porsi il problema di chiamare un medico, ed esibendolo in quelle condizioni ai famigliari accorsi alla centrale di polizia. “Dacci 200 e fine della storia”: questi i termini del ricatto per lasciare libere le persone in quel momento in stato di fermo. In questa situazione l’agire dei figli, per concorrere in qualsiasi modo a riscattare la madre dalle grinfie dei poliziotti, anche prostituendosi (in un momento alla Larry Clark), appare l’unico gesto nel film non motivato da fini utilitaristici.
Siamo tutti, come spettatori, catturati nella centrale di polizia, dove si svolge quasi tutto il film. Mendoza ci avvinghia in una situazione di estrema claustrofobia, lasciandoci pochi spiragli all’esterno, sempre comunque, come si diceva sporchi e nebulosi. È la stessa claustrofobia della sua filmografia, che pure concede qualche via di fuga, come l’antropologico Thy Womb, ma per poi tornare sempre a quel mondo della capitale filippina. “Forget it, Jake. It’s Chinatown” è la celebra battuta finale, sconsolata, di Chinatown. Dimentichiamoci tutto anche noi, questa è Manila.
Giampiero Raganelli