Le conseguenze dell’assenza
«L’anno dopo,
decisi di tornare a trovarli, riandare sui miei passi, ricalcare le mie tracce e fare il viaggio,
per annunciare, adagio, con cura, con cura e precisione
[…]
soltanto dire,
la mia morte prossima e irrimediabile»
Non vi abbiamo rivelato nessun finale riportandovi queste parole dal prologo di È solo la fine del mondo (qui nella traduzione di Fausto Malcovati), testo di Jean-Luc Lagarce, portato sul grande schermo da Xavier Dolan.
A distanza di dodici anni, lo scrittore Louis (Gaspard Ullie) sceglie di tornare a casa «per annunciare», come lui stesso dice, la propria morte. Cos’è accaduto in questo tempo ai suoi famigliari? E a lui? Cosa vuol dire tornare avendo mandato soltanto delle cartoline?
Ciò a cui lo spettatore assiste in novantacinque minuti di film si «svolge nella casa della madre (Nathalie Baye) e di Suzanne (Léa Seydoux), la sorella più giovane, una domenica, evidentemente, o forse ancora durante quasi un anno intero». Questa “indeterminatezza” del testo teatrale viene resa perfettamente in un lungometraggio che riesce a fare della parola e dei silenzi i suoi punti di forza senza risultare teatro filmato. Non era scontato che si evitasse di cadere in questa trappola, ma il fatto che a dirigere ci fosse un giovane, ma talentuoso com’è Xavier Dolan ci faceva ben sperare.
Ormai è un fatto, consacrato certo ancor più con Mommy, sin dai suoi esordi il regista quebecchese ha (di)mostrato di avere uno stile ben preciso, visibile anche solo dal trailer. Questa cifra è tutta a servizio della trasposizione cinematografica di un testo di Lagarce che vive di un’ingegneria sintattica molto complessa da far rivivere sia sulla scena che in video.
Nella stagione teatrale 2008-2009, Luca Ronconi aveva deciso di farne uno spettacolo, protagonisti erano Riccardo Bini, Melania Giglio, Pierluigi Corallo, Francesca Ciocchetti e Bruna Rossi (produzione Piccolo Teatro). L’artista francese, morto a trentotto anni, aveva – anzi sarebbe meglio dire ha – la capacità di mettere nero su bianco un linguaggio difficile, ambiguo, che chiede fortemente l’ascolto. «La complessità verbale svela la semplicità assoluta di sentimenti che appartengono a tutti. Sono emozioni molto profonde, talmente profonde che i personaggi non riescono ad enunciarle», affermava Ronconi, un regista davvero maestro nell’andare a fondo della parola.
«Finito Mommy, mi è tornato in mente quel testo con la copertina blu, allineato nella libreria del salone, sullo scaffale più alto. Il formato era così grande che superava di molto gli altri libri e documenti tra i quali era infilato, alzava la testa, come se sapesse di non poter essere dimenticato a lungo. Quell’estate ho riletto – o, per meglio dire, ho letto davvero – “Juste la fin du monde”.
Più o meno a pagina 6 ho capito che sarebbe stato il mio prossimo film. Il mio primo in età adulta. Finalmente ne capivo il testo, le emozioni, i silenzi, le esitazioni, l’irrequietezza, le inquietanti imperfezioni dei personaggi descritti da Jean-Luc Lagarce» (dalle note di regia di Dolan). Ecco lui, dal canto suo, non tradisce lo spirito di quella che sulla carta è una commedia (forse più nel senso di commedia umana) e, “servendosi”, di un cast d’eccezione (oltre ai già citati, troviamo le prove attoriali di Vincent Cassel e Marion Cotillard) che sa modulare le sfumature della recitazione, passando dal lavorare in sottrazione in cui è lo sguardo a parlare ad attimi di exploit in cui si vomitano le conseguenze dell’assenza.
Immaginiamo, ma certo è una personale ipotesi, che non sia un caso che questo testo abbia attratto il regista di Laurence Anyways, che, ancora una volta, impasta le mani in una storia che si differenzia dalle altre, pur mantenendo dei fili rossi come può essere l’assenza di un padre.
Uno degli aspetti che più colpisce del modo di comunicare di Lagarce prima e di Dolan poi (ovviamente in questo caso) è come si venga com-mossi dallo scarto che c’è tra il pensiero interiore e personale di ogni personaggio e ciò che poi lo stesso esprime anche con molta difficoltà. Ciascuno di loro opta per una strada: rintanarsi nel silenzio o arrivare a scontrarsi, il bello di questo testo e di questo film è che non ci viene detto se sia giusta una via o l’altra.
«La forza poetica della scrittura di Lagarce risiede in questo movimento del dire che risulta spesso uno strazio. L’oralità della lingua è qui come presa alla sua fonte, nel suo emergere maldestro, esitante, a volte impedito e ostinato, attraverso un ritmo, un respiro che dà filo da torcere agli attori prima di offrirgli un raro piacere nel recitarlo. Sotto l’apparente ripetizione di parole, si recita la recita della verità del dire che in Lagarce non è estranea dell’imbroglio» (da “Incontri di solitudini nel mondo delle parole” di Jean-Pierre Thibaudat).
Dolan costruisce in È solo la fine del mondo un crescendo che tiene incollata la platea di turno richiedendo sì uno sforzo, come dicevamo, all’ascolto, ma che verrà ripagato. Asseconda la parola con un ritmo che viene scandito da essa ed enfatizzata dai brani della colonna sonora, in sintonia col mood dell’hic et nunc della scena, risultando talvolta quasi delle isole felici che danno corpo ai ricordi e alle immaginazioni di queste persone.
«Dans ma maison
C’est là que j’ai peur
Home is not a harbour
Home home home
Is where it hurts
My home has no heart
My home has no veins
If you try to break in
It bleeds with no stains» canta Camille in “Home Is Where It Hurts”, tra i pezzi significativi di questa sinfonia cinematografica. Tra i vari punti toccati e toccanti c’è proprio la cesura tra chi si sente ingabbiato nel nucleo famigliare e chi è riuscito nell’operazione di staccarsene e poi c’è Catherine (la Cotillard), la cognata, estranea al legame di sangue e che sarà centrale nel momento in cui sembra che la linea temporale si spezzi. A voi scoprire e vivere tutto ciò.
È solo la fine del mondo è stato insignito del Grand Prix al Festival di Cannes 2016 ed è nelle nostre sale con Lucky Red dal 7 dicembre 2016.
Maria Lucia Tangorra