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Ma Loute

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VOTO: 7

 L’umanità marcia

Tutti  aspettavano di sapere, da questo ultimo lavoro di Bruno Dumont, se il regista avrebbe proseguito con l’ironia e il grottesco, del precedente P’tit Quinquin, inediti fino ad allora nella sua filmografia, o se quest’ultimo avrebbe rappresentato solo un episodio isolato nel suo cinema di tinte fosche. Confermata in pieno la prima ipotesi, che non piace ai puristi del regista, il quale prosegue così in pieno sulla linea P’tit Quinquin, e anzi Ma Loute sembra quasi il remake riveduto e corretto dell’altra opera, che peraltro era una serie per la televisione. E, in realtà, in entrambi i film, le tematiche care al regista, l’umanità marcia, i mostri che albergano nelle comunità marginali, la violazione e la putrefazione della carne, sono semplicemente riproposte in chiave caricaturale e assurda, ma non per questo meno dirompenti, anzi.
Dumont torna sulle stesse coste francesi di P’tit Quinquin, nella Côte d’Opale che si affaccia sulla Manica, ma tornando indietro nel tempo, al 1910. Un ambiente naturale di confine, di contrasto violento tra terra e mare. Le dune di sabbia cosparse di cespugli d’erba, la spiaggia che dirada all’orizzonte nel mare, lo sciabordio delle onde in sottofondo, il cielo terso, il vento costante. Un territorio estremo e marginale, di continua alternanza terra e acqua, di insenature e promontori, dove i confini tra i due elementi sono stati anche modificati dall’opera dell’uomo che ha anticipato il mare con le vasche di coltivazioni dei mitili, dove il livello dell’acqua rimane basso, tanto da essere sempre facilmente guadato dai pescatori del film. Dove le maree si alternano violente lasciando carcasse di imbarcazioni arenate sulla terraferma. Una natura estrema, dove nulla è idilliaco, dove l’aria è malsana e piena di mosche, dove le piante di glicine sono rinsecchite, dove anche le dimore signorili sono incredibilmente trash, in cemento armato con decorazioni riprese dall’antico Egitto, che Dumont popola di personaggi iconici. C’è una Mary Poppins rappresentata dal personaggio di Isabelle Van Peteghem, interpretato da Valeria Bruni Tedeschi; c’è una Lady Lyndon dall’altrettanta chioma, Aude Van Peteghem/Juliette Binoche; ci sono i due gendarmi Dupont e Dupond di Tintin, non uguali però, uno molto grasso e l’altro magro, ma altrettanto tonti, l’ispettore Machin e il suo assistente Malfoy che indagano senza molto successo sulle sparizioni misteriose di turisti (situazione che richiama fortemente quella di P’tit Quinquin); ci sono delle “femme à l’ombrelle” che sembrano uscire da un quadro di Monet, che si aggirano tra le dune di sabbia.
In questo ambiente aspro ci sono due famiglie, in contrapposizione per appartenere a classi sociali agli antipodi. Sono i Brufort, la famiglia di pescatori, i bifolchi, e i Van Peteghem, la famiglia altoborghese che possiede in quel luogo una grande magione di vacanza. Ai primi appartiene il protagonista, Ma Loute, che dà il titolo al film proprio come P’tit Quinquin, magro, brufoloso, dai denti irregolari, uno Stan Laurel sfatto. Sono dei volti veri, pieni di imperfezioni, gobbi, mentre gli appartenenti alla famiglia altolocata sono decorati e agghindati, infiocchettati, e impersonati da grandi nomi del cinema, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrice Luchini. Ma sono personaggi incredibilmente goffi e fragili, che continuano a cadere da sedie, o dal chiudersi improvviso di una sdraio, scivolare, inciampare, in un’abbondanza di gag. E le loro cene, formali (contrapposte a quelle grezze dei Brufort, a base di molluschi e pezzi di carne umana), sono il trionfo dell’incomunicabilità. Due famiglie apertamente in contrasto, a unirle è solo la religione, nella venerazione della ridicola Madonna dei mari. Ma proprio la contaminazione di questi due ambienti sociali diversi, fa aprire un vaso di Pandora, di incesti, ambiguità sessuali. Dove la cosa meno grave sembra proprio il cannibalismo praticato dai Brufort, trattato in chiave divertente: sembra una famiglia di John Waters o della Troma. Sempre quella carne smembrata, violata, quei corpi martoriati che passano dalla vagina violata del cadavere della bambina di L’humanité, e dal corpo delle mucche ‘farcite’ di parti anatomiche umane, inserite dagli orifizi, di P’tit Quinquin. In chiave ironica e di Faerie Tale, dove Tati si incontra con Kusturica, torna tutta la sozzura del mondo, l’umanità degenerata di Bruno Dumont.

Giampiero Raganelli

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