Al ladro! Al ladro!
A cinque anni dall’uscita della sua opera prima (L’arbitro, presentato alla 70° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, all’interno della sezione Giornate degli Autori), ecco arrivare nelle sale italiane – dopo il passaggio alla Festa del Cinema di Roma 2018 – L’uomo che comprò la luna, ultima fatica del regista Paolo Zucca, il quale, anche in questo suo secondo lavoro, ha mantenuto una ben gradita componente surreale che già a suo tempo aveva caratterizzato lo stesso L’arbitro.
Le nazioni di tutto il mondo sono allarmate: qualcuno ha rubato la luna! Possibile? Pare proprio di sì. Il ladro in questione è un anziano pescatore sardo. Al fine di porre rimedio al danno, occorre che qualcuno che parli la sua lingua – il sardo, appunto – e lo convinca a restituire l’oggetto del misfatto. Chi, dunque, meglio del giovane soldato Kevin Pirelli? Peccato soltanto che il ragazzo, avendo da sempre rinnegato le proprie origini sarde, fingendosi milanese doc, debba essere fortemente rieducato, prima di presentarsi ufficialmente al pescatore.
Già da una prima, sommaria lettura della sinossi, dunque, ci rendiamo immediatamente conto di trovarci davanti a qualcosa di particolarmente insolito per il panorama cinematografico nostrano. Eppure, Paolo Zucca, è già da tempo riuscito a farsi notare anche all’interno di manifestazioni importanti. Merito, indubbiamente, di questo sguardo tanto limpido e sognatore quanto, allo stesso tempo, maturo e disincantato.
La dimensioni sia surreale che, a tratti, favolistica delle sue opere, dunque, è in grado di parlare a un pubblico di giovani come di meno giovani, per storie che riguardano da vicino il nostro paese, tanto problematico, ma altrettanto amato dallo stesso autore. È stato così per L’arbitro ed è così (e, se vogliamo, in modo assai più marcato) per L’uomo che comprò la luna, dove i toni già messi in scena nell’opera prima si fanno ancora più marcati, per una vera e propria favola senza tempo.
Questo secondo lungometraggio di Paolo Zucca può essere definito, nello specifico, una vera e propria dichiarazione d’amore alla sua terra natale – la Sardegna, appunto – in cui, tuttavia, a un certo punto l’emotività del regista stesso sembra avere la meglio sulla costruzione della messa in scena e dello script. A tal proposito, seppur divertenti, i momenti in cui il giovane Kevin viene “addestrato” a comportarsi da sardo risultano, dopo un po’, eccessivamente ridondanti, così come, complessivamente, l’intera parte centrale del lungometraggio, seppur tendenzialmente pulita e lineare, tende ad appiattirsi perdendo pericolosamente di mordente. Stesso discorso vale anche per i personaggi dei funzionari del governo impersonati dai bravi Stefano Fresi e Francesco Pannofino, dal grande potenziale comico, ma penalizzati da una sceneggiatura che, man mano che si procede verso la fine, tende a rappresentarli alla stregua di deboli macchiette.
Fortunatamente, un riuscito finale – fortemente lirico e con una marcata componente onirica – riesce a risollevare il tutto, trasmettendo tutto il sentimento che il regista ha messo nel presente lavoro. Un lavoro che, assolutamente innovativo per quanto riguarda la nostra cinematografia, grazie alla sua sincerità e alla sua singolare forma, porta inevitabilmente una gradita ondata di freschezza all’interno del panorama cinematografico nostrano.
Marina Pavido