Essere donna e anche madre
«Irina è una storia femminile ma non femminista» ha voluto precisare la regista Nadejda Koseva introducendo la sua opera prima, presentata in Panorama Internazionale al Bif&st 2019. Effettivamente, post visione, si ha modo di comprendere ancor più cosa l’artista volesse intendere. Non è semplice parlarvi di un film così, che pur mostrando qualche piccola ingenuità sul piano della sceneggiatura (scritta a sei mani dalla stessa regista con Svetoslav Ovcharov e Bojan Vuletic), è un pugno nello stomaco rispetto alla povertà e alla disperazione, facendocela toccare con mano ed evidenziando senza mezzi termini fino a che punto possa arrivare la cosiddetta “guerra tra poveri”.
Già dalla prima inquadratura ci sono un suono e un’azione che denotano lo stato di degrado della famiglia di Irina (Martina Apostolova): suo marito Sasho (Hristo Ushev), col piccone sta ricavando – abusivamente – del carbone per poter riscaldare minimamente l’ambiente in cui vivono soprattutto per il loro piccolino. In un colloquio tra i due, è uno schiaffo all’uomo e ancor più allo spettatore la risposta di lei: «Non essere viva. Ecco cosa voglio». Sono parole che non hanno timore di urlare (senza scadere nell’atto di gridare letteralmente) il male di vivere che questa donna prova dentro di sé, in un’esistenza votata solo alla sopravvivenza, in cui piacere, desideri e aspirazioni sono azzerati.
Lo stesso giorno in cui Irina perde il lavoro come cameriera part-time, la sera fa un’atroce scoperta riguardante il proprio compagno – e chi le è più caro – e l’uomo resta coinvolto in un grave incidente con la conseguenza dell’amputazione delle gambe. Dopo aver toccato ulteriormente il fondo, Irina decide – in una condizione in cui non sente più via di scampo – di rispondere all’annuncio di una coppia e diventa madre surrogata per soldi. Con uno sguardo incisivo ma mai invadente, l’obiettivo della macchina da presa imprime sullo schermo il volto di una donna i cui occhi comunicano la lotta contro e con la vita (pregnante l’interpretazione della protagonista, che non eccede mai – il rischio era dietro l’angolo). Si assiste a un incontro di solitudini in cui a un tratto i gesti e i sentimenti nascono da sé (significative le scene tra le figure femminili, comprese quelle tra l’aspirante madre e la protagonista), lasciando da parte quella rabbia che logora dentro.
Irina riesce a mostrare benissimo come il seme della vita che può crescere nel grembo di una donna possa portare a una trasformazione sì del corpo, ma anche interiore. Non possiamo non puntare l’accento anche sulla curata rappresentazione dell’ambiente, che vuole far emergere il divario sociale tra dove vive Irina e le possibilità economiche della coppia sterile, che dimostra – ancor più inizialmente – insensibilità, come se per tutto bastassero i soldi e il corpo dell’altro sia solo un oggetto da gestire e controllare.
Il lungometraggio innesca inevitabilmente degli interrogativi etici e morali, ma al contempo ha tra i suoi punti di forza il non giudizio (da parte della regista) rispetto a determinate scelte così personali e dense di implicazioni. Man mano che si dipana la storia, anche la possibilità di giudizio da parte dello spettatore si deve mettere a tacere, dando spazio all’ascolto e lasciandosi andare nel vivere questo viaggio che conduce alla riscoperta dell’amore, declinato su più piani.
Maria Lucia Tangorra