Quando Hollywood si tinse di rosso
C’è stato un tempo, negli Stati Uniti, in cui la libertà di pensiero fu anti-democraticamente sospesa. Accadde quando, pochi anni dopo il termine del Secondo Conflitto Mondiale, avere idee comuniste non era esattamente popolare, nel segno del reciproco sospetto con cui si guardavano America e Unione Sovietica dopo aver sconfitto il comune nemico nazista. Troppo grandi le due potenze e troppo differenti le ideologie di fondo, per poter andare d’amore e d’accordo. L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo prende in esame quel periodo di “caccia alle streghe” dalla prospettiva hollywoodiana, rendendo senz’altro un ottimo servigio a coloro che fino ad ora hanno ignorato l’enorme peso storico della vicenda, paragonabile forse alle reazioni post 11 settembre 2001 senza però che nessuna tragedia si fosse mai verificata sul suolo statunitense. Dalton Trumbo, all’epoca talentuoso e popolarissimo sceneggiatore nel dorato mondo del cinema, subì in prima persona – assieme al famoso gruppo della Hollywood Ten, cioè i dieci personaggi influenti che si rifiutarono di abiurare alle proprie idee davanti ad una commissione del Congresso allestita per l’occasione – tutte le conseguenze del caso, carcerazione in primis e totale boicottaggio professionale in secondo luogo. Una parabola storica, insomma, a suo modo esemplare in quella che spesso viene ancora creduta la terra delle opportunità e delle libertà, sempre che non si vada contro un modello di pensiero ben preciso.
Osservato il film sotto questa chiave puramente filologica non si può certo dire che il regista Jay Roach e lo sceneggiatore John McNamara – a sua volta ispiratosi al libro “Trumbo”, scritto dal giornalista Bruce Cook – non abbiano fatto un buon lavoro. L’esposizione dei fatti è sufficientemente chiara, completa e meticolosa. Coloro che ne erano già, almeno a grandi linee, al corrente ne ricaveranno ulteriori, importanti particolari; mentre chi ne era a digiuno rimarrà molto sorpreso per il modo in cui determinati personaggi della crema hollywoodiana hanno utilizzato la vicenda a mo’ di regolamento di conti nei confronti di rivali e concorrenti non solamente ideologici. Particolarmente pregnante, in tal senso, lo scambio di battute al curaro tra lo stesso Trumbo attaccato in modo frontale dal “Duke” John Wayne, notorio falco repubblicano. Solo un aneddoto, tra i tanti citati nel lungometraggio, capace però di mettere in perfetta luce l’ostilità creatasi all’interno di un ambiente – chiara metafora di qualcosa di ben più ampio capace di covare nell’intero paese – che non prevedeva in alcun modo voci di dissenso. Ciò premesso, nel mettere in scena il biopic su Trumbo, qualcosa non deve aver funzionato alla perfezione riguardo l’aspetto drammaturgico. Molto di rado infatti lo spettatore si immedesima nelle turpi angherie subite da Trumbo e compagni, con ogni personaggio che rimane sorta di figura unidimensionale deputata alla dimostrazione visiva di una pur giustissima causa che perora la libertà di pensiero. Persino la lodatissima interpretazione del comunque ottimo Bryan Cranston (Breaking Bad) nel ruolo di Trumbo contribuisce, attraverso il proprio esibito istrionismo, alla creazione di quel “muro” tra oggetto filmico e pubblico, innestando una sorta di sterilizzazione emotiva che, se non conduce alla noia, poco ci manca.
Dalton Trumbo – il quale troverà finalmente giustizia per mano di uomini di cinema del calibro di Kirk Douglas (Spartacus, da Trumbo stesso sceneggiato) e Otto Preminger (Exodus, medesimo discorso) che imporranno il vero nome dello sceneggiatore privo di pseudonimo poiché ancora inviso all’establishment – forse avrebbe meritato un regista e un film migliore, di quello che Jay Roach, ricordato soprattutto per le popolarissime saghe comiche di Austin Powers e Ti presento i miei, è riuscito a confezionare. Nonostante questo L’ultima parola resta un film didatticamente da vedere, nella speranza che qualche autore con la A maiuscola si occupi in prima persona di una delle tante storie che potrebbero fungere da paradigma sulla dubbia evoluzione di un paese ancora oggi saturo di (irrisolvibili?) contraddizioni.
Daniele De Angelis