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Breaking Bad

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Breaking Bad: un’interpretazione

Molto è stato scritto riguardo Breaking Bad, un tale turbinio di parole che qualsiasi sillaba in più appare ridondante e superflua, un sasso timidamente scagliato in uno stagno oramai talmente colmo di circonferenze concentriche, da rimanere impassibile e muto di fronte a nuovi impatti e collisioni.
Serie pluripremiata (oltre ad un numero ragguardevole di Emmy, lo scorso anno si è aggiudicata il Golden Globe per la categoria Best Drama Series), con un sorprendente riscontro di pubblico, il fenomeno Breaking Bad si è meritato premi e seguito grazie al mantenimento di un oculatissimo equilibrio tra narrazione spettacolare e intenzione critico-espressiva, ad un cast d’eccezione dal quale emerge un Bryan Cranston policromo e in stato di grazia, ad un montaggio raffinatissimo e venato di espedienti tanto singolari quanto efficaci nella resa, ad una grande accuratezza impiegata nella delineazione dei personaggi principali, mai monodimensionali o tautologici. Intenzione di questo articolo non è quella di illuminare i punti deboli dei Breaking Bad, lasciati troppo inespressi e spesso raggomitolati nell’ombra (sinteticamente: episodi in numero eccessivo, dialoghi saltuariamente stereotipati, soluzioni narrative che peccano in quanto a credibilità, personaggi secondari occasionalmente trascurati e penalizzati nella loro elaborazione) per quanto una simile intenzione sarebbe oltremodo legittima e costruttiva; quest’analisi ha piuttosto il proposito di esplicitare quelle questioni, ammantate delle spoglie di leit-motiv, che Breaking Bad suggerisce al suo spettatore, invitandolo a farsene carico, ad interiorizzarle (non è forse questo il compito che ciascun’umana opera, letteraria, sonora, figurativa che sia, affida al suo analogamente umano fruitore?).
Vince Gilligan, creatore di questa serie (oltre che del conosciutissimo X-Files), la battezza con un nome prepotente, sinestetico, foneticamente potente, che contiene in sé buona parte del suo significato corticale: Breaking Bad è una costruzione verbale utilizzata per esprimere un drastico cambiamento di rotta, una navigazione in acque abitualmente miti e pacate che improvvisamente decide di virare in direzione di distese tempestose. Una traduzione italiana il più possibile fedele potrebbe più  o meno corrispondere ad “imboccare la cattiva strada”.
E’ comunque necessario sottolineare la maestria dimostrata da Gilligan nel saper individuare e credibilmente collegare tutte le sfumature, le gradazioni della parabola verso l’amoralità percorsa da Walter White: questo contenuto e mansueto professore liceale di chimica, tanto intelligente quanto generalmente sottostimato, episodio dopo episodio si concederà sempre di più (probabilmente anche per esigenze di coerenza interiore), sino a sconfinare nell’aperta delittuosità.
Particolarmente importante per il disvelamento del portato sottocorticale della serie, è la localizzazione temporale di questo abbrutimento, di una simile anestetizzazione morale: Breaking Bad  prende le mosse da una diagnosi oggettivamente agghiacciante, quella di un cancro ai polmoni. Una scoperta del genere opererebbe per lo più da agente inibitorio nella vita di un essere umano, affievolendo e falciando di netto le sue energie fisiche e nervose, costringendolo ad una condizione di incredulità mista ad una rabbia passiva, dai tratti rancorosi.
C’è evidentemente un elenco mediamente lungo di eccezioni ad una reazione di tal genere, ed una di queste è proprio quella inscenata da Breaking Bad: se una vita ha costantemente assunto le sembianze di una non-vita, un’attualizzazione di qualcosa di informe, ma sempre e comunque manipolato da altri (tua moglie, i tuoi studenti, il proprietario dell’autolavaggio in cui lavori per cercare di arrotondare i guadagni), un susseguirsi di frustrazioni tanto professionali quanto familiari (la ferita narcisistica che apporta ad un genitore la nascita di un figlio disabile, specialmente in un’epoca in cui i figli son visti come possibili mezzi di riscatto sociale, non è da sottovalutare), tutte queste contingenze possono portare un individuo a sentirsi improvvisamente padrone delle redini con cui dirigere il proprio galoppo esistenziale proprio quando questo è vicino al suo estinguersi. Il ragionamento immediato, spesso inconscio, che prende forma nelle menti di persone similmente insoddisfatte, è pressappoco di tal genere: ora che la scadenza di questa pseudo vita è definitivamente fissata, ora che le conseguenze deprecabili delle mie azioni non mi saranno attribuite per pietà, o addirittura cadranno nel vuoto perché alleggerite dalla mia assenza, posso finalmente provare il brivido del rischio, della scommessa, delle situazioni limbiche che simpatizzano ambiguamente con la vita e la morte e alle quali, in qualche modo, mi percepisco affine, adesso che posso toccare con mano il tremito dell’oblio.
Un uomo in condizioni economiche precarie come quelle di White, se avesse avuto alle spalle una storia di tranquillità familiare caratterizzata da una stabile apertura reciproca dei suoi membri, probabilmente non avrebbe parteggiato per l’illegalità: invece Walter individua nella sua drammatica situazione un’occasione per sposare l’amore (comunque sincero) che nutre per la sua famiglia con la tanto attesa rivalsa nei confronti di quelle istanze intimidatorie tra le quali si colloca, in prima linea, il suo stesso nucleo familiare.
Pasolini sosteneva, in Empirismo Eretico, che solo nel momento della morte il linguaggio della nostra vita, intraducibile nel presente della sua espressione, brilla finalmente di senso: è come se la morte svolgesse un’azione paragonabile a quella del montaggio, selezionando gli episodi realmente significativi, sottraendoli dal caos nel quale erano puntualmente emersi e disponendoli in successione a formare una linea densa di significato. Con una buona dose di libera interpretazione, potremmo spingerci ad affermare che Walter White ha avuto come la percezione di intrattenere un rapporto privilegiato con la morte (alla quale percezione ha probabilmente contribuito la determinazione cronologica della morte stessa, per quanto vaga e imprecisa fosse), tale da scongiurare il ruolo meramente passivo di materia del montaggio del quale tutti noi siamo inevitabilmente ammantati, al fine di impadronirsi, sottraendola alla morte, della macchina da presa, almeno per quanto concerne gli ultimi attimi di una (fino a quel momento) vuota esistenza (ultimi attimi che però, ricordiamolo, possono irradiare della loro luce o oscurare con la loro ombra tutti gli istanti che li hanno preceduti).
Gilligan dichiarò pubblicamente che con Breaking Bad e con la cangiante psicologia di Walter White intendeva porre lo spettatore in una condizione finalmente partecipante e soprattutto pensante, volta ad interrogarsi sull’effettiva natura delle azioni di Heisenberg (sorta di nickname che White si auto addossa per riferirsi al sé fuori legge e quindi incisivo ed esuberante), sulla loro reale motivazione, spezzando il meccanismo tanto arcaico quanto superficiale del tifo, del parteggiare, per dare spazio all’ebbrezza dell’incertezza, dell’indecisione, e quindi dell’indagine.
Queste sono le premesse, le fondamenta coraggiose e a loro modo rivoluzionarie su cui poggia il fenomeno televisivo di questi ultimi anni; permettendoci una critica, seriamente inevitabile perché profondamente legata all’analisi portata avanti da questo articolo, potremmo accusare Gilligan di essersi spinto troppo in là in quanto all’indurimento e all’incattivimento di White, mettendo così in dubbio la sua innocenza originaria. In poche parole, lo stesso titolo della serie rischierebbe un impoverimento di senso, causa la mancanza di premesse.
In ogni caso, le ultime parole di Walter White nella puntata finale, non fanno che chiarificare in modo massimamente limpido ed eloquente ciò che gli episodi avevano fino a quel momento (sempre meno) sommessamente suggerito: ”I did it for me. I was good at it. And I was really…I was alive”.

Ginevra Ghini

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