Sulle mie tracce
Trasposizione cinematografica di un romanzo di successo, a sua volta tratto da una storia vera. Due ingredienti, questi, che in un secolo e passa di storia della Settima Arte sono stati croce e delizia di numerose opere approdate sul grande schermo. Il fattore di rischio è piuttosto elevato quando presi separatamente, figuriamoci se combinati e utilizzati entrambi per dare forma e sostanza allo script di turno. Capita spesso che l’adattamento non sia all’altezza della matrice originale, o che non riesca a restituirne la forza drammaturgica e il trasporto emotivo. La percentuale che questo si verifichi è piuttosto elevata, ma fortunatamente Lion di Garth Davis, dalle pagine di “La lunga strada verso casa” di Saroo Brierley e Larry Buttrose, riesce a sottrarsi ai tentacoli avvolgenti di questa infelice statistica, quanto basta per portare la nave sana e salva in porto. Ciò è il risultato di un buon gioco di squadra, con i meriti che andrebbero equamente distribuiti tra la fase di scrittura e il lavoro svolto sul set.
Da una parte lo sceneggiatore Luke Davis consegna nelle mani del regista australiano uno script equilibrato, capace di dosare le esigenze della storia e del romanzo con quelle della scrittura cinematografica. Si avverte qualche calo e passaggio a vuoto nella parte centrale, ma le emozioni che fluiscono nell’arco della timeline e alcune scene particolarmente coinvolgenti (vedi la fuga notturna del piccolo Saroo dalla stazione di Calcutta o il riabbraccio con la terra natia venticinque anni dopo) riescono ad attenuarne l’effetto negativo. Poi c’era da fare i conti con una vicenda realmente accaduta e con i personaggi che l’anno vissuta sulla propria pelle, a cominciare da Saroo Brierley, che l’ha narrata in prima persona in un delicato romanzo autobiografico. Questo aumentava in maniera esponenziale il grado di difficoltà e soprattutto le responsabilità da parte dello sceneggiatore nei confronti della vicenda e del suo protagonista. Una vicenda in tutto e per tutto straordinaria, che dimostra che a volte i miracoli e la tecnologia possono andare a braccetto, regalando bellissime sorprese. Lion, presentato al Toronto Film Festival 2016 e nelle sale nostrane con Eagle Pictures a partire dal 22 dicembre dopo la presentazione nella Selezione Ufficiale (film di chiusura) dell’11esima edizione della Festa del Cinema di Roma, racconta la storia di Saroo, un bambino che all’età di cinque anni si perde su un treno che attraversa l’India e si ritrova molto lontano da casa e dalla sua famiglia. Il piccolo dovrà imparare a sopravvivere da solo a Calcutta, prima di essere adottato da una coppia di australiani. Non volendo ferire la sua nuova famiglia adottiva, Saroo decide di dimenticare il passato e di non ascoltare il suo desiderio di potersi ricongiungere con sua madre e con suo fratello. Venticinque anni dopo, armato solo dei suoi pochi ricordi, di una determinazione incrollabile e di Google Earth, Saroo si propone di ritrovare la sua famiglia e di tornare nella sua prima casa.
Poi ci pensa Garth Davis ha trasferire sullo schermo il tutto con una regia mai invasiva, capace di mettersi al completo servizio della drammaturgia e dei personaggi. E non deve essere stato per niente facile per un regista che ha fatto dello stile visivo prepotente il suo biglietto da vista, addomesticandolo e attenuandolo rispetto a quello con il quale ha messo in quadro serie televisive (Love My Way e Top of the Lake) e commercials per note marche. Di tanto in tanto, il controllo viene meno, con inquadrature che tendono a enfatizzare quel tantino di troppo i toni già drammatici della storia, ma sono peccati di gola sui quali si può anche provare a chiudere un occhio. Anche il lavoro davanti la macchina da presa non è da meno. Quello degli attori che hanno preso parte all’esordio sulla lunga distanza del regista australiano, tra cui Nicole Kidman, Dev Patel e Rooney Mara, ha dato il giusto contributo alla causa, anche se un appunto va fatto per diritto e dovere di cronaca. In tal senso, scritturare Patel ogni volta che si deve raccontare la storia di un cittadino indiano dall’esistenza più o meno travagliata o “straordinaria”, alle prese con odissee umane, è a nostro avviso una scelta che riteniamo decisamente pigra. L’attore inglese di origini indiane firma un’altra intensa e partecipe interpretazione nei panni del protagonista, per cui a conti fatti il puntare su di lui è stata una scelta vincente, ma operarne di diverse e più coraggiose al momento dei casting non guasterebbe. Vederlo nel giro di otto anni in ruoli “fotocopia” come quelli di The Millionaire, L’uomo che vide l’infinito e Lion, rischia a lungo andare di diventare una fastidiosa abitudine per gli occhi degli addetti ai lavori e degli spettatori comuni. Ma questo è un problema atavico, legato alle non machiavelliche regole di mercato e di box office, per cui duro a morire.
Francesco Del Grosso